Thats a good question! – Quando le domande sono al centro di una cultura

Negli States le domande sono ovunque: in televisione, nella vita reale e soprattutto nelle situazioni di business. Nella patria deitalk show, le domande sono rock e le affermazioni sono lente, per dirla alla Celentano maniera. Perfino un saluto per strada o in un negozio non è mai solo “Ciao” ma è sempre “Ciao, come va?” (Hi, how you’re doing?). Basta mettere piede in una qualsiasi situazione di networking (conferenza, seminario, aperitivo, ecc) per essere subito assaliti da decine di persone che chiedono qualcosa su di te, sulla tua azienda o sulla tua professione. Negli eventi sociali, soprattutto se si tratta di business, si va per domandare, imparare e raccogliere informazioni. A parlare di sé ci pensano i biglietti da visita (business card) che vengono dispensati a tutti con grande disinvoltura come fosserochewing-gum. Di recente ho presentato un mio intervento alla conferenzaPartnering for performanceche si è svolta a Raleigh , North Carolina. Con piacere ho notato che tutte le presentazioni erano strutturate come un dialogo con il pubblico che veniva invitato a partecipare in vari modi (alzare le mani, ad esempio). Al termine degli interventi prendevano corpo spontaneamente e immediatamente decine di domande. Si trattava in prevalenza di learning question che, al contrario dellejudging question* (giudicanti), portano ad un apprendimento senza necessariamente esprimere un giudizio. Raramente una domanda nascondeva una polemica, il desiderio di farsi notare o di parlare di sé. Molto spesso mi è capitato di assistere, nelle conferenze italiane, a presentazioni di relatori che strutturano i loro interventi come monologhi al termine dei quali è previsto, nei casi migliori, lo spazio per le domande Questo momento, il più delle volte, si concretizza in un gelido silenzio in cui il pubblico si mostra imbarazzato e le persone sembrano timorose di esporsi. In America, al contrario, l’atto stesso di porre domande viene continuamente rinforzato con frasi del tipo “That’s a good question”, “You made a good point” ecc. Questistrokepositivi non rappresentano solo l’applicazione di una nota tecnica di gestione delle obiezioni, secondo cui la prima parte della risposta deve contenere un rinforzo positivo, ma sono espressione di una differente cultura in cui le domande sono considerate un vero e proprio regalo. Lo dimostra il fatto che, sia nelle comunicazionione to oneche in quelle pubbliche, ogni domanda viene accolta nella maggior parte dei casi con un rinforzo positivo da parte dell’interlocutore, un sorriso, una frase, un cenno della testa che lasciano intendere che la domanda è stata comunque gradita, indipendentemente dal suo contenuto. Non è un caso che il coaching, che si basa essenzialmente sul buon uso delle domande, sia nato e abbia posto le sue radici più profonde proprio nel terreno socio-culturale americano. Inoltre nel coaching il feedack è considerato un dono, un mezzo per crescere attraverso l’immagine restituita dall’esterno. In un ambiente in cui le domande sono da sempre considerate il modo migliore di relazionarsi con l’altro e vengono rinforzate positivamente fin dall’infanzia, il coaching non può che essere considerato lo strumento ideale per lo sviluppo delle persone e delle organizzazioni. Come possiamo alimentare il senso del coaching e fare acquisire ancora più valore a questo approccio, nel contesto socio-culturale italiano?That’s a good question! * Cfr Berret-Koheler “Change your question, change your life”, 2004
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