Essere o apparire?
Il coraggio di essere.

Basta coraggio per riuscire ad essere quello che siamo? Si tratta di vivere e celebrare la propria identità, quel patrimonio unico che appartiene solo a noi. Potrebbe essere considerata un’utopia esistenziale, in un mondo nel quale quello che conta è apparire. Possiamo giocare con le maschere che indossiamo, ma il rischio è confondere la maschera con chi la indossa. La tendenza a uniformarci a modelli esterni ritenuti vincenti, può diventare un boomerang pericoloso.
Sappiamo che entriamo in contatto con il mondo esterno grazie ai nostri cinque sensi e Dale Carnegie diceva che ci relazioniamo agli altri, attraverso quattro modi:
- ciò che facciamo,
- come appariamo,
- ciò che diciamo
- e come lo diciamo.
L’ideale sarebbe mettere d’accordo questi modi affinché trasmettano lo stesso messaggio in modo congruente e non contraddittorio.
La questione è che da un pò di tempo si ha l’impressione di entrare in contatto con una vasta platea di apparizioni, e si fatica a cogliere l’autenticità delle persone.
Chi si cela dietro quei veli che a volte sono veri tendoni da circo, di parole, parole e parole?
Il bisogno di parlare, di raccontarsi può essere anche molto interessante per chi ascolta, a patto che non si ascolti una verità fittizia o argomenti fuori contesto. Le parole dovrebbero essere calibrate sulle esigenze di chi ascolta.
Analizziamo due casi su ciò che di dice e su come dirlo.
Non so se è solo una mia impressione, mi capita di pensarlo anche quando ascolto qualcuno in occasione di incontri formativi o in chi vuole promuovere una qualche attività. Buona parte delle presentazioni è un racconto autoreferenziale per parlare di se stessi, di cosa si è fatto, delle tante esperienza vissute, dei successi ottenuti e bla bla bla.
Anni fa con la mia società abbiamo rischiato di perdere un’ interessante potenziale cliente. Avevano mostrato interesse per una nostra offerta, un progetto di formazione rivolto a un numero consistente di figure manageriali. La presentazione in azienda sembrava una buona occasione da affidare a una nuova collaboratrice che aveva una grande esperienza commerciale. Nel meeting, immagino in perfetta buona fede, lei iniziò a raccontare dapprima le esperienze che la nostra società aveva acquisito negli anni, i tanti progetti realizzati, la tipologia di clienti seguiti, poi passò a parlare della sua storia professionale per valorizzare il suo ruolo nella specifica circostanza. Bastarono quei 10’ di premessa non richiesta, per essere stoppata da una dirigente che le fece intendere in malo modo che il tempo a sua disposizione era ormai scaduto e che avrebbero letto le slides relative alla sua presentazione.
Era ovvio che se si erano rivolti a noi, sapevano tutto della nostra società, il sito internet, tra l’altro è più che esplicito. Erano interessati alla formazione, quindi semmai volevano saperne di più della expertise dei trainer, delle metodologie utilizzate, del piano didattico, non certo dell’esperienza specifica di chi era lì a presentare tutto questo. La più grave mancanza è stata iniziare a parlare senza chiedere prima quali fossero le richieste e le esigenze, le domande alle quali rispondere.
Abbiamo faticato un po’ prima di recuperare questo cliente, ma è stata una lezione importante. La collega voleva fare bella figura, ci teneva a portare a casa un contratto, ma era troppo concentrata sulle sue esigenze, sul bisogno di dare una immagine ricca di storia professionale e aveva perso di vista di essere una buona commerciale, che sa ascoltare il cliente prima di offrire un prodotto.
Indubbiamente i social hanno alimentato questa tendenza. La comunicazione è unilaterale, anzi leggiamo o ascoltiamo messaggi reattivi e contro reattivi, ben distanti da una conversazione costruttiva.
Leggo e vedo immagini molto allineate a modelli standardizzati e l’effetto è come avere davanti un mare piatto senza onde, né increspature, anzi mi viene in mente l’immagine di uno stagno, di quelli nei quali solo la libellula che tocca il pelo dell’acqua suscita un improvviso interesse.
Il conformismo, oltre ad essere alla lunga noioso, cela spesso una forma di insicurezza e l’incapacità di accettare giudizi anche critici da parte degli altri.
Quante facce o maschere indossiamo tutti giorni? Alcune possono essere davvero molto utili, protettive, confortevoli. Altre utilitaristiche. Chiediamoci se sono tutte facce della stesa medaglia o sono facciate posticce prese a prestito da altre medaglie?
Intendo dire, che possiamo porci in modo diverso in base alle circostanze, mantenendo comunque il nostro stile, rispettando quello che siamo nel nostro intimo. La vera missione è non perdersi di vista. Rischio questo alle porte, quando prevale il timore di non piacere al resto del mondo o quando lo stile di un’altra persona sembra vincente e allora la tentazione di ricalcare le sue orme è forte, ma l’effetto non è sempre proficuo, si sceglie di apparire, di indossare una identità posticcia e il dramma è quando si abbandona chi c’è dietro alla maschera.
Ci possono essere mille motivi per cui le persone tendono ad omologarsi, perdendo l’occasione di mostrare la loro unicità, credendo che sia una strategia vincente.
Vediamo il caso di un cliente che ho seguito e che chiamerò Luca. Voleva migliorare la sua comunicazione, in particolare nel public speaking. Era molto insicuro, temeva di esporsi, aveva sempre davanti agli occhi esempi di abili relatori, di brillanti comunicatori e lui non si sentiva all’altezza. Il suo era un ruolo pubblico, doveva risolvere il problema con urgenza.
Citava personaggi presi a modello obiettivamente molto diversi da lui. Luca era una persona introversa e molto profonda. Il suo cruccio era di non riuscire ad essere brillante, dando a questa etichetta una specifica forma assolutamente aderente a persone diverse da se stesso. Questo accanimento ad essere chi non era, causava il suo insuccesso e una costante frustrazione.
Durante il percorso di coaching ha recuperato il senso della sua identità, riconoscendo il valore delle sue peculiarità. Non poteva essere chi non era e inoltre detestava le persone false. Si è reso conto quindi che non voleva né poteva essere il clone di qualcun altro.
Ha iniziato a guardarsi con nuovi occhi, a sorridere delle sue cosiddette fragilità, a renderle punti di forza. Se arrossiva, giocava con il suo rossore dicendo che gli capitava solo quando era in contesti a cui teneva particolarmente, con persone a cui assegnava importanza.
Quando doveva parlare in pubblico, ha imparato a concentrarsi non più su di sé, sull’immagine che voleva dare, ma soprattutto su quanto di utile lasciare ai suoi interlocutori. All’inizio il panico da palcoscenico era legato alla sua immagine riflessa nella sua mente che vedeva in uno specchio immaginario, Si vedeva parlare, muoversi in un determinato modo che non gli piaceva.
Gradualmente si è allontanato dalla sua immagine ideale ma irreale, ne ha colto la criticità e si è concentrato sul pubblico. Cosa volevano sapere quelle persone? Bastava chiederlo in apertura. Quale messaggio lasciare? Cosa gli sarebbe piaciuto che a distanza di una settimana dicessero del suo intervento? E’ stato utile perchè… Luca trovò il suo stile concentrandosi sul senso e sulla mission del suo ruolo e, parodassalmente, lasciando andare l’immagine del suo relatore ideale, ritrovo il sé reale.
Ognuno di noi ha qualcosa di unico e di prezioso che lo caratterizza, qualcosa che consente di restare impresso agli altri. Il modo di ridere, di parlare, anche il balbettio, l’incertezza nell’eloquio può diventare un punto di forza. Chi non ricorda la potenza della comunicazione del grande Massimo Troisi?
Come rivitalizzare quegli aspetti che si considerano difetti e che si tende a celare, a nascondere? Cominciando a riconoscere queste parti, potreste sorprendervi nello scoprire che sono punti di forza.
(Tratto dal podcast Coaching Time n. 43)
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