L’assassinio della personalità
Un titolo forte, lo so. Perché l’ho scelto?

Un titolo forte, lo so. Perché l’ho scelto? Uno, perché io scrivo anche thriller, e questo è un linguaggio che sento particolarmente vicino. Due, soprattutto perché è una definizione che utilizza Daniel Goleman nel suo bestseller “Intelligenza emotiva”.
Nelle coppie, in amicizia, sul lavoro, ci si trova spesso davanti a questo tipo di “crimine”.
Una moglie che dice al marito: «Sei un buono a nulla, nemmeno un chiodo ti riesce di appendere!». Un fidanzato che dice alla ragazza: «Non devo neanche dirtelo, quello che sei, l’invio di quell’SMS a Tizio mi ha dato la conferma che sei spregevole». Il capo che urla: «È questo il modo di stampare una presentazione? Quelli che ti danno sono soldi buttati!».
I tre esempi riportano casi (edulcorati, credimi) di conversazioni che ho ascoltato con le mie orecchie. Si tratta di atti banali che vengono criticati con una violenza verbale fuori dal comune. Una violenza che non sta criticando il gesto in sé, che non spiega perché quel gesto abbia fatto del male, ma che attacca la personalità di una persona, ne mette in dubbio le capacità e le facoltà.
A far male non sono solo le parole, ma anche il linguaggio non verbale e paraverbale. Il tono di voce, l’espressione (spesso disgustata, o schernitrice) del viso, il corpo che si ritrae o sovrasta. È in atto una vera e propria lotta.
E il nostro cervello rettile, in associazione con quello limbico, come ci dice di reagire, in una situazione del genere? Con la più antica delle reazioni: lotta o fuggi (fight or flight, come dicono gli anglosassoni).
Ci saranno persone che piangeranno, altre che faranno il broncio, altre che troncheranno la relazione e anche persone che reagiranno con violenza alla violenza. Spesso non solo verbalmente.
Queste situazioni sono state studiate approfonditamente da John Gottman, psicologo della Chicago University. Gottman verificò che tali atteggiamenti, se ripetuti, possono portare all’insorgenza di numerose problematiche psicofisiche, nelle vittime, spesso comparabili agli effetti del fumo o del colesterolo alto, per le cardiopatie. Dici sul serio? Sì, purtroppo.
Questi scatti d’ira alle volte non vengono nemmeno orientati verso coloro che ci hanno davvero fatto saltare i nervi, ma verso qualcun altro che si trova nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Si tratta di uno strabordare di pensieri tossici che si accumula nel tempo e che, al primo innesco, tira fuori tutto il marcio che la persona si porta dietro. Parlo di preconcetti costruiti nel tempo sul nostro partner, sul capo, su un genitore o un figlio, facendo dimenticare tutte le cose buone che quella persona ha fatto o fa, distogliendo l’attenzione sulla realtà e sul problema reale (e sulle sue soluzioni).
Come ci dice anche Goleman, questo ridondare di pensieri tossici si può facilmente accumunare a uno studio della Indiana University su un àmbito che scade nel patologico e va affrontato certamente in altri modi: i mariti violenti. La ricerca ha mostrato, infatti, che i mariti violenti si comportano come adolescenti bulli che, attraverso uno stile di pensiero negativo, trovano intenti ostili in qualsiasi atto, anche quello più gentile o neutro. Lo stesso atteggiamento di chi “uccide una personalità”.
Come si possono evitare simili situazioni?
Con un pensiero positivo, diametralmente opposto al precedente. È necessario mettersi nei panni dell’altra persona, usare empatia e contestualizzare. «Mio marito ha semplicemente sbagliato a mettere un chiodo. Punto. Non è ciò che fa per lui. Però mi aiuta nelle faccende di casa, (oppure) è un bravo lavoratore, (oppure) è un ottimo papà…».
In questo modo si analizza il problema, si razionalizza l’impeto emotivo e si reagisce in modo pacato, come la situazione richiederebbe.
Ma se il potenziale “assassino di personalità” non ci riesce? Allora sta a noi, potenziali vittime, porci in una condizione di positività. La prossima volta che il tuo capo ti urla addosso che sei l’incapacità fatta persona, potresti ricordare le cose buone che hai fatto almeno negli ultimi periodi. E poi chiedere: «Questo errore invalida davvero tutto?».
È un po’ quello che facciamo anche noi coach con i nostri coachee. Aiutiamo a esplorare il pensiero, a prendere consapevolezza di qualcosa che sfugge, a dirigere la mente verso un universo costruttivo.
A differenza di quello che accade nella maggior parte delle sessioni di coaching, però, l’altra persona non si trova davanti a noi perché ha volontariamente scelto di discutere, parlare e indagare il proprio pensiero. Quindi, non è detto che ci si riesca sempre. Alle brutte, lasciar sbollire la rabbia e tornare sull’argomento quando l’eruzione lavica è terminata è la soluzione migliore.
Di sicuro, mai rispondere al fuoco con il fuoco.
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