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Prendersi cura di sé per prendersi cura degli altri.

Una possibile strategia con cui ripartire.

Quando un po’ di mesi fa mi sono cimentata nella stesura dell’articolo “Il Coaching e Socrate: un tuffo nel passato per rilanciare il presente”(articolo pubblicato su Timecoaching il 30 marzo 2020), non immaginavo che necessità ci sarebbe stata di un rilancio dopo la pandemia che ha sconvolto la vita di tante persone in tutto il mondo! Ritornando quindi su alcuni temi affrontati ho sentito l’esigenza di soffermarmi sull’espressione “prendersi cura”: questa è diventata infatti una sfida che coinvolge ciascuno di noi, tanto personalmente, come cura di sé, quanto nella relazione con chi ci sta accanto, “prendersi cura di qualcuno”. 

ICF ( International Coach Federation) , sulla scia di quanto ha scritto Magdalena Mook, (CEO/Executive Director ICF): “Coaching is a caring profession. ICF is a caring organization”, ha deciso di costruire una pagina sul proprio portale dal titolo “We care” volta a interpellare i coach su questa attuale esigenza. Questo mi ha confermato che si trattava di un tema importante soprattutto per chi lavora nell’ambito del Coaching. 

Con il termine ἐπιμέλεoμαι Socrate fu tra i primi filosofi, se non forse proprio il primo, a presentarci uno dei pilastri su cui costruire il processo di scoperta ed esercizio delle proprie potenzialità: il “prendersi cura” appunto. Il termine “cura” è stato ripreso poi in varie occasioni nella storia del pensiero. 

La suggestione offerta da Heidegger in “Essere e tempo” ci permette di precisare che l’attenzione che prestiamo agli altri dovrebbe sempre andare nella direzione della loro valorizzazione e non sostituzione: “quanto ai modi positivi dell’aver cura ci sono due possibilità estreme. L’aver cura può in certo modo sollevare l’altro dalla «cura» sostituendosi a lui (…). L’altro risulta allora espulso dal suo posto, re-trocesso (…) . Opposta a questa è la possibilità di aver cura la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo (Martin Heidegger, Essere con gli altri e prendersi cura di loro Martin Heidegger, Esistenzialismo ed Ermeneutica, Unità 9 Lezione 42, De Luise, Farinetti, Lezioni di storia della filosofia, Zanichelli editore 2). 

Quanto affermato dal filosofo tedesco, non sorprende perché, nel nostro prodigarci per chi amiamo, siamo spesso portati a fare, più che a essere, cioè a dare cose, soluzioni, idee, e quindi alla lunga a sostituirci più che ad accompagnare, ad essere presenti, ad ascoltare. Forse questo si verifica perché pensiamo al prenderci cura sempre come a qualcosa da realizzare in situazioni straordinarie, dove l’altro è in difficoltà, possiede meno, soprattutto da un punto di vista materiale: l’attenzione a chi ci sta accanto però non può essere relegata solo a questo ambito. Il seguente brano ce ne dà una sintetica ma approfondita dimostrazione. “Oggi nessuno nega la necessità di un atteggiamento più umano nelle stesse re-lazioni umane (…). Quando appaiono la necessità e la malattia, emerge anche tutta la dignità dell’essere umano e la vera solidarietà si manifesta spesso nella forma di cura, di care. È una solidarietà certamente necessaria, ma che si dirige a risolvere situazioni di emergenza fuori norma. Al contrario, la sfida della nostra società postmoderna – e, pertanto, di un nuovo umanesimo – consiste nel conferire il suo valore ad una dimensione ancora più umile, più nascosta, e meno spettacolare, «che non fa notizia». (…) Ci vuole coraggio per ammettere che a questo livello della vita quotidiana si è perso il senso dell’umano, vale a dire, che servono delle azioni e dei lavori che offrano di nuovo all’uomo i beni ne-cessari alla sua condizione corporale e dipendente, non quando ha bisogno di cure straordinarie, ma soprattutto nella vita di ogni giorno”. (María Pía Chirinos, “Antropologia della dipendenza, il lavoro e la costituzione dell’essere umano”, Acta Philosofica 16 (2) (2007), pp.208-209). 

Pensando quindi all’importanza del prendersi cura nella vita di ogni giorno, la mia riflessione si è rivolta a quelle che sono le prime cure che tutti noi riceviamo quando ci affacciamo alla vita: quelle di una madre che “nutre” il figlio non solo materialmente, ma anche rendendolo partecipe di esperienze cognitive, percettive, affettive, dosate dalla sua attenzione e dalla sua premura di genitore. Nei primi mesi e anni, la mamma, anche se in modo di verso il papà e i diversi caregiver che intervengono in questa fase della crescita del bambino, diventano quindi, più o meno consapevolmente, protagonisti di una straordinaria esperienza destinata a lasciare traccia nella propria vita e in quella del figlio. Per il bambino infatti non è sufficiente stare al mondo, occorre un continuo “riconoscimento”, attraverso le interazioni del prendersi cura, del voler bene, nel suo essere unico e irripetibile. Afferma Pieper: “Noi diciamo: una persona “fiorisce”, “sboccia” quando le succede di essere amata, soltanto allora essa diventa completamente sé stessa, incomincia per lei “una nuova vita” e altro ancora “( J. Pieper, “Sull’amore”, ed Morcelliana, p.61). E il primo riconoscimento per il bambino, come d’altra parte per l’adulto, è cogliere un’accettazione da parte dell’altro “senza se e senza ma”, non tanto per le capacità che ha sviluppato –che nel caso del bambino piccolo non possono essere ancora percepibili- ma per le potenzialità inespresse che costituiscono il nucleo della sua persona. “La persona si sente accettata quando si percepisce compresa e totalmente rispettata nel suo modo di vedere, di sentire e di pensare, questo attiva le sue capacità di auto-regolazione che hanno come base l’accesso alla coscienza delle sue esperienze e quindi dei suoi desideri” (F.Bergamino “Coaching e persona umana”, p. 39). 

Quello che può essere interessante osservare e che risulta particolarmente evidente nel caso della relazione madre-bambino, è che prendersi cura di un altro passa necessariamente attraverso la cura di sé. Rimanendo nell’ambito delle cure materne infatti, una mamma che pur con le inevitabili preoccupazioni, insicurezze e ansie, sviluppa un armonico equilibrio personale, costituirà un po’ alla volta un vero e proprio trampolino di lancio per le sfide che il piccolo si troverà ad affrontare. 

Nel Coaching, ma sicuramente anche in tanti altri ambiti, si presta giustamente una particolare attenzione a questo aspetto potremmo definire “previo” all’instaurarsi di una relazione di sostegno: affinare le nostre qualità, le nostre risorse, per poter poi accompagnare più efficacemente qualcuno nel raggiungimento di un obiettivo. Nel prezioso testo che ho utilizzato nella mia preparazione per il diploma di Coaching, “L’Essenza del Coaching”, ( di A. Pannitti, F. Rossi, ed F. Angeli 2009, p.81) viene posta una domanda molto semplice quanto importante: “ma può un coach prendersi cura dei propri clienti se non ha cura di se stesso? (…) Essere coach significa dunque occuparsi costantemente anche della cura di sé, della propria crescita personale, tendere autenticamente alla felicità in senso eudaimonico e alla autorealizzazione”. 

Una scommessa avvincente e certo ardua per tante persone che erogano un servizio formativo e che forse alcune volte sottovalutano questo step iniziale del proprio lavoro, anche perché sono troppo coinvolti dal desiderio di aiutare e da tante cose da fare. Ricordo a questo proposito un aneddoto riportato da Covey, si raccontava di una persona che vedendo un boscaiolo affannato a tagliare un albero gli domanda: “ma perché non si ferma qualche istante per affilare la lama? Sono sicuro che farebbe molto più in fretta…” e l’altro gli risponde: “non ho tempo di affilare la lama, sono troppo impegnato a segare”. (S.Covey, “Le 7 regole per avere successo, ed Franco Angeli, p. 256). Non sono necessari troppi commenti…. 

Ognuno di noi ha quindi la sua lama da affilare in vista dei tanti capolavori che potrà intagliare nelle sue relazioni educative se vuole che questo prendersi cura sia efficace e significativo. 

Come coach mi preme concludere più con alcune domande che con suggerimenti o indicazioni; domande che hanno l’obiettivo di ampliare il proprio orizzonte o per lo meno iniziare a scrutarlo: quanto potrebbe aiutarci approfittare di quella che sarà una ripresa lenta della nostra vita normale per chiederci quali aspetti del nostro io possiamo coltivare con più dedizione e passione? Chi o cosa potrebbe incoraggiare la nostra creatività in tal senso? C’è o c’è stato nella nostra vita qualche personaggio –un nostro mito- che può costituire uno stimolo a intraprendere qualche percorso arricchente nell’immediato futuro? 

Mi risulta abbastanza facile immaginare in questi giorni tante strade che si riaprono davanti a noi, e tante persone che in questo momento di incertezza si apprestano a percorrerle con più o meno fatica; a tutte auguro un buon viaggio al ritmo consentito dal bagaglio di esperienze positive e negative acquisito in questo periodo. Non credo convenga dare tanta importanza alla velocità con cui si procederà quanto al desiderio di non rimanere fermi e di prendersi cura di sé e degli altri, accettando la propria situazione attuale come un dono e come una sfida. 

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