Lalba di Ognissanti

Anche quest’anno è in arrivo il 1° Novembre, festività di Tutti i Santi. Domani mattina, fin dalle prime ore dell’alba, il piccolo centro di Carpignano Salentino si colorerà di immagini e odori suggestivi. Il profumo penetrante della carne di maiale avvolgerà le persone che andranno vagabondando tra le bancarelle di prodotti tipici locali. La fiera di Ognissanti è una tradizione che a Carpignano si ripete da tempi antichissimi. Da bambino trascorrevo il ponte dei Santi e dei Defunti giù nel Salento, in compagnia della mia cara nonna Alfonsina. In realtà la raggiungevo anche per cinque giorni durante le festività pasquali e per venti giorni durante l’estate. Viveva in un delizioso villino lungo la strada che da Carpignano conduce al cimitero. Sono tanti i ricordi che mi legano a Carpignano, soprattutto i ricordi che mi legano all’alba della fiera che non vedo da cinquant’anni, eppure provo ad immaginare come sia cambiata. E ora, come allora, attendo l’alba di domani, con la spiacevole consapevolezza che bisognerà sopravvivere alla notte di oggi. La notte in cui una moltitudine insopportabile di bambini travestiti gironzolerà con zucche illuminate tra le mani, bussando di porta in porta a chi, come me, cercherà disperatamente di cacciare Halloween dalla propria casa. Eppure anch’io ero un insopportabile bambino, vivace e curioso. Soprattutto curioso. La festa di Halloween non esisteva. Nessun genitore, anche il più esibizionista, avrebbe esortato il proprio figlio ad infrangere la quiete della gente perbene, a reclamare dolcetti o infliggere scherzetti. La festa di Halloween non esisteva, ma esistevano altri modi per inguaiarsi durante la notte del 31 Ottobre. Soprattutto a Carpignano. Avevo sette anni, fu la prima e l’ultima volta che non riuscii a vincere la mia sciagurata curiosità. Dormivo tranquillo nel mio lettino e, improvvisamente, fui svegliato da un rumore indecifrabile che proveniva da fuori. Erano le tre o le quattro, l’ora è l’unico particolare di quella notte che mi sfugge. Mi affacciai alla finestra ancora assonnato e vidi un uomo anziano che trascinava una carriola lungo la strada. Mi stropicciai gli occhi e, aguzzando la vista, intravidi una quantità enorme di zucche, appena raccolte, che troneggiavano sulla carriola. L’uomo si stava recando verso il cimitero con aria trasognata, pizzicando la mia curiosità. Avvolsi il mio corpicino in una coperta di cotone arancione, cucita da nonna, aprii silenziosamente la finestra e mi intrufolai nel buio della notte più macabra dell’anno. Seguii la carriola con passo felpato, facendo attenzione a non farmi scoprire. Raggiunto lo spiazzo dinanzi al cimitero, l’uomo delle zucche si fermò e cominciò ad emettere una serie di suoni alla rinfusa, come se volesse avvertire qualcuno. Mentre mi nascondevo dietro un cespuglio di mirto, vidi che lo raggiunsero tre donne. Spettinate, senza denti e… nude, completamente nude. Due di loro cominciarono a suonare il tamburello, battendolo violentemente con la mano. L’altra si avvicinò all’anziano e lo trascinò in una danza sfrenata e convulsa. I loro corpi si sfioravano e si allontanavano seguendo un ritmo vorticoso e tagliente, come se una grossa tarantola li avesse pizzicati. Ogni colpo sul tamburello scatenava il sangue sia nei loro piedi sia nel mio cuore. Dentro avvertivo un terremoto, come se una mano stesse cercando di privarmi dell’ultimo respiro. Trovai difficoltà a comprendere chi fossero quelle tre donne impossessate e i miei sette anni non evitarono di farmi la pipì addosso. Volevo urlare per implorare aiuto, ma la squallida sensazione di avere a disposizione un solo respiro non me lo permise. Volevo fuggire, ma il corpo non rispondeva alle mie volontà. Ero immobilizzato. Pregai che arrivasse presto il giorno, che le luci dell’alba spegnessero quella scena paurosa ai miei occhi. Non ricordo perfettamente cosa successe dopo. Il mio sguardo si smarrì sul volto esausto e grondante di sudore dell’anziano, mentre i tamburelli continuavano ad infuriare l’aria di suoni. Il primo raggio solare del giorno dopo mi svegliò. Ero accasciato dietro il cespuglio, con la puzza di piscio che invadeva i pantaloni. Era giunta l’alba di Ognissanti. Cominciai a correre verso il centro abitato, implorando a squarciagola un misero aiuto. Le bancarelle iniziavano ad esibire i loro prodotti, inaugurando la fiera tanto attesa. Nessuno… nessuno credette alla storia della notte precedente. Fui preso per pazzo. “Un bambino fantasioso e ricco di creatività” dichiarò mia madre, ridendo. Il ritrovamento del cadavere dell’anziano in un campo di zucche non servì ad avvalorare le mie parole. “La causa del decesso è stato un infarto” etichettò il medico legale. “Inevitabile” dichiarò la polizia “Era vecchio!” L’unica che non ebbe dubbi sulla veridicità dei fatti fu nonna Alfonsina. “So chi hai incontrato” mi bisbigliò all’orecchio con complicità “Erano le Macàre, le Streghe del Salento. Ogni anno scelgono un ospite con cui ballare fino all’alba. Danzano freneticamente senza sosta. Per l’ospite non è facile resistere al ritmo incalzante delle Macàre. Quel vecchio aveva già il cuore debole e quindi… non ha retto!” “Ma… allora perché nessuno mi crede?” “Le Macàre sono innocenti leggende per intrattenere le chiacchierate serali, ma guai se quei racconti venissero confermati dalla realtà!” Così le Macàre continuano a vivermi dentro ogni 31 di Ottobre. Le ricordo alla perfezione e mai le dimenticherò. Gli strizzacervelli, retribuiti profumatamente da mia madre, nulla hanno potuto per salvarmi da loro. Io l’ho viste, vi giuro che l’ho viste e non posso credere che fossero scialbe fantasie della mia mente. Nel Salento non sono più tornato. Eppure ogni anno, quando giunge la notte del 31 Ottobre, nonostante mi trovi a numerosi chilometri di distanza, prego disperatamente che arrivi l’alba di Ognissanti per rimuovere quell’incubo che mi distrugge a suon di tamburello.
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