Vediamo o guardiamo quello che abbiamo davanti agli occhi?
Guardiamo con l’intelligenza o guardiamo con l’affetto?

In una delle prime lezioni ricevute nella scuola di Coaching, ho avuto modo di cimentarmi, insieme ai miei colleghi, in un esercizio apparentemente molto semplice, che mi ha fatto riflettere molto. Ci è stato chiesto di ascoltare con attenzione le presentazioni che ognuno di noi faceva di sé stesso e di enumerare poi le caratteristiche positive che si evincevano dai racconti di ciascuno. Quello che, con il passar del tempo mi è sembrato interessante, è l’impegno che ci veniva chiesto per accogliere chi avevamo davanti, non solo senza pregiudizi negativi, ma anche in tutta la sua realtà; eravamo cioè sollecitati ad osservare gli aspetti positivi di chi avevamo davanti rivolgendogli uno sguardo non semplicemente benevolo, ma penetrante, rispettoso, ammirato, perché provavamo ad “ascoltare” non solo le singole caratteristiche ma la persona nel suo complesso.
Giovanna Giuffredi, nel suo prezioso testo “L’onda del Coaching”(ed. Piccin pag. 63) ci fa capire bene perché così spesso tendiamo a “filtrare” la realtà, e a non guardarla nella sua interezza: “noi tutti indossiamo delle lenti originali attraverso le quali mettiamo a fuoco la realtà, per poi valutarla e giudicarla, ne interpretiamo i significati e ci comportiamo di conseguenza”.
La missione del coach consiste proprio nel guardare e far guardare quello che si ha davanti agli occhi; attraverso le sessioni di Coaching il cliente acquista consapevolezza del fatto che alcuni blocchi e incertezze che gli si presentano, sono frutto di una selezione delle informazioni presenti nell’ambiente. “(…) la sfida sarà quella di offrire al cliente una finestra nuova dalla quale osservare la realtà della propria vita, da un punto di vista differente e meno limitante” (A. Pannitti, F.Rossi, “L’essenza del Coaching, ed.FrancoAngeli, p. 155).
Ritorniamo alla prima parte del titolo dell’articolo: “Vediamo o guardiamo quello che abbiamo davanti agli occhi ?“. Perché dopo queste considerazioni possiamo riflettere sul fatto che tendiamo più a vedere che a guardare. Il Dizionario Treccani dice: “Parallelamente all’opposizione tra ascoltare e sentire, quella tra guardare e vedere. implica in genere un maggior coinvolgimento del soggetto. nel primo verbo. (…) Inoltre, la sfera dei significato . di vedere è molto più ampia di quella di guardare, che è verbo più specifico, designando un vedere con attenzione.
Siamo immersi in una cultura che fa fatica a cogliere la realtà in tutta la sua complessità, anche perché ha scisso da un punto di vista antropologico la dimensione intellettiva da quella emotiva. Riprendiamo a questo punto la seconda parte del titolo dell’articolo “Guardiamo con l’intelligenza o guardiamo con l’affetto?”.
Un mio stimato professore dell’Università scriveva: “la razionalità è concepita come un freddo potere analitico e organizzatore mentre l’affettività è avvertita come una relazione calda con gli altri e con il mondo ma al di fuori dell’orizzonte della ragione” (cfr. F.Botturi, “Innamoramento e amore, in AA.VV Alla ricerca delle parole perdute. La famiglia e il problema educativo, Piemme, Casal Monferrato 2000, pp.54-76).
Nell’addentrarmi nella metodologia del Coaching ho potuto comprovare un interessante recupero di questo legame tra il razionale e l’affettivo: il coach per esempio, è molto attento nel percepire non solo quello che il coachee “capisce” dei suoi obiettivi, dell’importanza di raggiungerli, ma anche quanto li “sente” come propri, quanto gli appartengono. Si assiste ad un vero e continuo intreccio di queste due dimensioni e più camminano di pari passo più si sperimenta l’efficacia del percorso di Coaching.
Trascorsi vari anni dai miei studi di filosofia, ed occupandomi ora, di Learning coaching, quindi modalità di apprendimento, ho riscoperto ritrovato ancora una volta l’importanza dell’unità di queste due caratteristiche intellettiva ed affettiva dell’uomo. La prof. Lucangeli, nel suo coinvolgente libro “A mente accesa” (ed Mondadori, pag. 26-27) afferma: “(…) non siamo solo il frutto del nostro DNA, ma anche dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, delle nostre esperienze, dei nostri incontri, delle nostre sensazioni e dei nostri sentimenti che influiscono su di noi al punto da modificare il nostro epigenoma (…) gemmiamo connessioni in base a ciò che leggiamo o ascoltiamo, ai sapori che gustiamo, alle strade che percorriamo, alle persone che incontriamo, ai sentimenti che proviamo.
Non c’è atto nella vita psichica, dunque, che non sia contemporaneamente cognitivo ed emotivo” (ibidem, pag.72) e ancora “Aristotele dichiarava che l’apprendimento ha una base emotiva: educare la mente senza educare il cuore significa non educare affatto” (ibidem pag 75).
Nella conferenza inaugurale delle Romanae Disputationes, del 30 settembre 2020, il prof. Botturi accenna alle arti quali luogo di elevata espressione di quella che lui definisce “sensibilità ragionante”, intendendo con questa espressione –e dopo un’approfondita analisi filosofica che non è possibile riportare in questo breve articolo- l’auspicabile unità tra la dimensione intellettiva ed affettiva tanto dal punto di vista antropologico che gnoseologico. A conclusione, mi servo quindi di una citazione letteraria per veicolare e lasciare più impresse queste riflessioni: “Il sentimento senza la ragione è una bevanda annacquata, ma la ragione non temperata dal sentimento è un boccone troppo amaro e indigesto per lo stomaco umano” ( Jane Eyre).
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