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Professione Coach 2: Cosa è importante nel Coaching?

Teri-E Questions – I risultati della seconda Survey Ed eccoci al secondo articolo di approfondimento sulla professione di Coach, stimolato dalle domande di Teri-E Belf. La seconda survey si focalizza sulle credenze che ruotano attorno alla professione prima di diventare coach e su quali azioni sarebbero necessarie per presentare al meglio il coaching. L’ultima domanda, di questa seconda serie, analizza quali elementi, oltre agli apprendimenti e all’ampliamento della consapevolezza, i coach debbano avere a cuore per i propri clienti. Alla prima domanda sulle convinzioni dell’aspirante coach prima di intraprendere la professione, è sorprendente notare come la maggior parte ritenevano che il coach fosse una figura dominante, dotato di leadership, un motivatore, che istruisse e indicasse cosa fare al cliente, un sostegno continuo e che proprio per questo facesse sviluppare un rapporto di “dipendenza” così pronto a dare consigli e a correggere errori. Inoltre emerge una sovrapposizione di ruoli tra coach e counsellor, tra coach e psicologo, tra coach e mentor, tra coach e allenatore sportivo. A proposito del metodo la convinzione dominante è che alle spalle non ci sia un percorso di formazione, una metodologia strutturata per accompagnare il cliente nel suo percorso di consapevolezza e di nuovi apprendimenti. La seconda domanda analizza cosa correggere nella percezione del coaching per far meglio comprendere al pubblico la professione del coach. La diffusione attraverso gli organi ufficiali ICF con video e materiale vario è auspicata ma l’accento è posto soprattutto su rendere manifesti i risultati che il cliente raggiunge con il coaching. Ovvero una maggiore focalizzazione e allineamento sui propri obiettivi, la scoperta di un tesoro già in suo possesso, sviluppo personale e nuovi apprendimenti, è il cliente a guidare essendo lui esperto di se stesso. Questo potrebbe servire a precisare che il coaching è una metodologia che fa riferimento a un codice etico e a una deontologia non formale, che va sperimentata di persona, che il coach non è un motivatore, non dà soluzioni, non manipola o esalta il cliente. Inoltre sarebbe necessario evidenziare gli ambiti applicativi del coaching, semmai ricorrendo a incontri o esempi specifici, per diffondere la potenzialità della metodologia e il valore di investire su se stessi, venendo via dall’idea che un coach (come supporter) è necessario quando si ha un problema o se c’è qualcosa di “sbagliato” nella propria vita personale e/o professionale. La terza domanda si sofferma su cosa, oltre ad un’aumentata consapevolezza e apprendimento, il coach dovrebbe avere a cuore per il suo cliente. La sensazione è che le risposte oscillino tra potenziare il cliente perché possa continuare in seguito e da solo il percorso di consapevolezza e di responsabilità avviato con il coach e la responsabilità del coach affinché il cliente continui e s’impegni a raggiungere gli obiettivi prefissati nel percorso. Il tema è ampio e apre a riflessioni successive su coaching terminabile e interminabile (parafrasando Freud) e responsabilità del coach e del coachee nel percorso di coaching. Una risposta in particolare sembra riassumere le due posizioni superando l’incertezza nell’impegno a creare uno “spazio” con il cliente aprendosi a una connessione più profonda insieme, dove quello che conta è condividere l’esplorazione. In questo spazio, che presidia e tutela coach e coachee, anche la situazione di non voler imparare diventa un’opportunità di apprendimento. Quindi alla fine conta davvero servire il cliente, lasciando andare ogni attaccamento. Al prossimo appuntamento di esplorazione della professione del Coach.

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