Perché scrivere di sé?

Le motivazioni che sottendono la pratica autobiografica. Il bisogno di lasciare una traccia del proprio passaggio sulla terra sembra profondamente connaturato con lo sviluppo della cultura umana, se già i nostri progenitori, quelli vissuti alle soglie della Storia, avevano trovato il modo di riempire i loro rifugi (le grotte e le caverne) con i segni dipinti delle loro vicende umane. La scrittura (e la lettura) è stata poi, per molti secoli, esclusivo appannaggio di pochi ma, se si compie ora un lungo salto temporale tra le prime comunità umane e la nascita della stampa e, tra i caratteri mobili di Guttenberg e l’e-book, non si può fare a meno di osservare che non si è mai scritto così tanto. Ciò è attribuibile ad una maggiore e più capillare alfabetizzazione e a quanto la scrittura permei la tecnologia che, come effetto diretto, sta cambiando le vite di tutti (basti citare la diffusione incredibile di internet e dei social network). Le forme della scrittura sono oggi mutate e sono in continua trasformazione ma è pur sempre con forme nuove di una tecnica antica che abbiamo a che fare. In qualche modo, ci dobbiamo confrontare con questi modelli che cambiano e che sono profondamente diversi da quelli con cui siamo cresciuti. La scrittura autobiografica è lontanissima dalla velocità e dalla frammentarietà semplificativa dei social network, richiede infatti un lavoro lento, sommesso e intimo che va alla ricerca del senso più profondo dell’esistenza. Il nucleo della pratica autobiografica trova infatti i suoi fondamenti da un lato nel bisogno antico dell’uomo di lasciare una traccia, di raccontare la sua storia attraverso codici comuni e interpretabili dai suoi simili e, dall’altro, nel recupero di modelli popolari – non banali – che riportano la scrittura al suo rango iniziale: una tecnologia, uno strumento al servizio di tutti – e non solo di quelli con il talento letterario o in possesso di nozioni di grammatica e semantica – per ricostruire reti sociali alternative e soddisfare quel bisogno di essere “individualmente insieme”, per usare la parole di Bauman. La metodologia autobiografica Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: i percorsi di scrittura autobiografica non hanno alcuna velleità letteraria e non sono fatti per gli aspiranti scrittori; non ci si occupa infatti di stili o di tecniche narrative proprio perché non sono finalizzati a promuovere o a lanciare nuovi autori. Anche se può accadere che, iniziando a lavorare con la scrittura, si manifesti un talento inaspettato per la narrazione, quello non è certo lo scopo principale dei percorsi formativi in questione. Tutti – anche coloro che non si sentono, ancora, a loro agio con la scrittura- possono frequentare i corsi di scrittura autobiografica, a patto che condividano il desiderio di ricerca su se stessi e sulla propria storia. Infatti, nei laboratori di scrittura autobiografica si cerca una voce che dia forma al pensiero autobiografico: cioè quell’insieme di riflessioni e di ricordi sulla e della propria vita passata che ci coglie ad un certo punto della vita e che a volte si trasforma in un bisogno, prima confuso e poi sempre più definito, di raccontare la propria storia. (Demetrio) Se si ascolta quel desiderio di rievocazione e lo si trasforma attraverso la scrittura, immediatamente si scopre come tale ricerca produca benessere, conoscenza di sé e cura della memoria. La scrittura autobiografica è soprattutto un fare, una pratica che, spesso, prende inizio da un interrogarsi sul senso dell’esistenza per poi diventare un progetto sul sé e un fecondo percorso di crescita individuale e collettiva, a patto di saper cogliere la sfida, evitando le cadute nel solipsismo e rendendo gli spazi di ricerca individuale comunicabili attraverso la condivisione e la co-costruzione con gli altri. In tale ottica, la pratica autobiografica acquista una funzione meta riflessiva che può avviare processi di trasformazione in età adulta, trasformando in questo divenire anche le idee presenti perché fornisce strumenti di comprensione e interpretazione della realtà odierna che non è più immediatamente comprensibile ma appare sempre più come molteplice, incerta e sfumata, generando spesso – per questi motivi -malessere e senso di inadeguatezza (Batini). Ecco perché la metodologia autobiografica è sempre più riconosciuta come “tecnologia del sé” in quanto strumento per valorizzare l’esperienza individuale anche in chiave di autoapprendimento e autoformazione. Quando iniziamo a raccontare la nostra storia, siamo spinti a ritrovare ciò che ci ha dato forma e sorprendentemente ci rendiamo conto che ricominciamo ad imparare dall’analisi della nostra storia. L’esperienza narrativo-autobiografica viene raffigurata spesso con la metafora del viaggio. Raccontando l’itinerario e i differenti incroci delle strade intraprese, le fermate, gli incontri e gli avvenimenti, il “viaggiatore” non solo può riuscire a localizzarsi qui e ora ma anche a comprendere quali siano state le sue esperienze più significative, ricordandosi dei suoi sogni e narrando gli incidenti di percorso. In altre parole, “andare all’incontro di sé” significa comprendere che viaggio e viaggiatore fanno tutt’uno (Josso e Demetrio).
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