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Lettera a Pierpaolo

L’anno che sei stato ucciso, io svolgevo una vita normale. Ero una giovane mamma, che timbrava tutti i giorni il cartellino sul suo posto di lavoro e che frequentava la Scuola di Musica Popolare insieme al suo bambino. Tra le mie colleghe di lavoro, ero quella più informata sui diritti delle donne, e venivo da loro cercata, per chiarimenti sul contratto di lavoro, ma anche per un consiglio o la condivisione di una difficoltà, per vedere insieme come uscirne fuori. Una vita forse un poco faticosa, ma nella norma per una donna degli anni ‘70. Volevo crescere il mio bambino meglio che potevo, anche da sola. Ed avevo un uomo che mi voleva bene, ma non vivevano insieme. Sapevo di te, dei tuoi film, dei tuoi libri, ma la tua figura mi inquietava, i lineamenti duri e quel qualcosa di sfuggente che non riuscivo a capire, non mi rendevano facile avvicinarmi a te ed a quello che scrivevi. Avevo anche visto qualcuno dei tuoi film e ne ero uscita perplessa. Ero giovane, fiduciosa ed ottimista. Ero nata dopo la guerra, ne conoscevo gli orrori solo per sentito dire, perché sia in famiglia che nella scuola, non si parlava molto di questo. Pensavo, che si potessero cambiare le cose che non andavano, senza dover mai fare i conti con la violenza e gli abbrutimenti. Nello stesso tempo, sentivo che c’era qualcos’altro appostato dietro l’angolo del mio vivere “pulito”, del mio “guardare” senza “vedere”. L’alba che ha seguito la notte in cui ti hanno ammazzato, prometteva sole sul mare tra Ostia e Fiumicino, ed i titoli cubitali dei giornali di quella mattina, sbattevano in prima pagina la tua morte. Altre voci urlavano, con raccapriccio, del tuo corpo straziato ed irriconoscibile, simile a quello di un fantoccio insanguinato. Solo leggendo lo scempio che era stato fatto di te, qualcosa mi fece pensare che non poteva essere stata una sola persona a farti tutto quel male. Ci doveva essere una rabbia più grande e più adulta di quella di un ragazzo di vita. Un bisogno di farti tacere, di ammutolire per sempre quel tuo essere in grado di svelare verità che pochi volevano vedere. Quel tuo tentativo di far riflettere le persone, sulla necessità di non chiudere gli occhi e di non rintanarsi nelle false certezze di un “benessere” fatto di consumi. Tu, certamente, lo sapevi fare, nei tuoi film, nei tuoi scritti, nelle tue poesie anche se questo significava immergersi completamente nella miseria delle borgate e nella violenza di una Roma notturna e periferica. Mi venne, il bisogno impellente di conoscerti meglio. Cominciai solo allora a leggere i tuoi scritti, a vedere i tuoi film; e fu una significativa scoperta per la mia maturazione personale e sociale. Il prossimo settembre, fanno 30 anni dalla tua morte. Ed io continuo a pensare a te, come ad un prezioso maestro dal quale ho appreso quanto, gli aspetti opachi di un’esistenza, non tolgano luce all’unicità di ogni vissuto.

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