Il regalo di Natale

Uno spaccato di vita, il regalo inconsapevole di un figlio Sono rimasta interdetta quando, ieri, hai lasciato la porta della tua camera aperta. La luce accesa e il disordine sulla scrivania raccontavano di momenti trascorsi a studiare, a fare di conto o a organizzare chissà quale vita parallela alla mia. Non ti ho visto subito, ho solo colto la luce morbida e calda che rischiarava la tua camera e lasciava intravedere i margini del piumino di un letto perennemente disfatto. La tua camera, terreno inviolabile, inaccessibile forziere di tesori nascosti con cura e gelosamente tenuti lontano dal mondo di fuori, in cui vivo anche io, per un attimo mi è sembrata di nuovo parte della casa, di me e non più terra di mezzo. Mi hai chiamata, un mugolio più che un suono, un grumo di sillabe che è arrivato dritto al cuore per aprirlo a metà. Ti ricordavi ancora quel sostantivo che hai imparato a forza di balbettii e tentennamenti e sbavature e risatine, non lo avevi dimenticato e nemmeno archiviato tra le bozze di un programma in attesa del ‘delete’. Mi hai chiamata. ‘Mamma vieni un attimo?’. E io ho esitato, pensando di sbagliarmi, pensando affannosamente che cosa potesse significare quella convocazione. Hai insistito e affacciandomi nel riquadro della porta ti ho visto e per un attimo il cuore ha perso un battito. Eri sdraiato, condizione perenne la tua, con la testa infilata tra il Mac e il telefonino, gli occhiali di traverso a darti quel l’aria da aristocratico annoiato e le lunghe gambe arrampicate su per il muro. Sembravi il dipinto in cui un artista folle si fosse ingegnato a concentrare bellezza e arroganza, mescolando con cura eleganza e presunzione, innocenza e sfida fino ad ottenere proprio te. Mi hai guardata trattenendo un sorriso, mi hai fatto cenno di sedere accanto o sopra tutta quella carta, quella tecnologia che sarebbe bello saper usare come la usi tu. Ma come fai? Come fai ad essere sempre connesso, capace di surfare tra programmi e film in streaming, con la musica nelle orecchie, ritmando con il piede un rosario di suoni indistinti,whatsappandocon l’universo e sfogliando il manuale di matematica che tra poco c’è l’appello? Dimmi, dimmi come si fa ad essere come te, sempre in guerra, quotidianamente arroccato nel silenzio ermetico di chi si sente più avanti, più in alto o comunque altrove rispetto a me, tenacemente aggrappato a quello sparuto gruppo di pari che tieni ben nascosto e lontano da casa come se proprio lì si vivesse la trincea di una battaglia cruenta e pertanto luogo di scontro vietato ai non addetti. Mi sono seduta, imbarazzata, erano mesi che non venivo ammessa alla sala del trono e non sapevo dove mettere le mani. Ci hai pensato tu. Con un calcio hai liberato la parte sinistra del letto e ti sei accomodato con la testa sul mio grembo spargendomi addosso il tuo odore pungente di maschio e una cascata di riccioli duri e folti e irti come aculei. Ti sei accomodato, hai trovato l’incavo fra le mie gambe e hai sospirato beato puntandomi dritto in faccia due tizzoni ardenti a forma di punto interrogativo. Siamo rimasti così, tu come se fosse la cosa più normale del mondo e io come se mi fosse donato di nuovo il pezzo di mondo che settimana dopo settimana, mese dopo mese, mi è stato scippato da un’adolescenza tardiva e un’ adultitá che stenta a fiorire. Ci siamo guardati e mentre mi inanellavo i tuoi riccioli intorno al mio indice e tu chiudevi gli occhi, ho cercato disperatamente qualche cosa da dire o da fare perché il momento non finisse, non si sciupasse e tu tornassi ad essere il ragazzo di ghiaccio. Ti ho respirato, bevuto, scannerizzato. Hai ancora i lineamenti fanciulleschi, la rotondità delle guance, le lunghe ciglia arcuate, la bocca piena e imbronciata ultimo baluardo all’incalzare della barbetta rada che ti orla il profilo. Vorrei dirti tante cose, e te le dico, ma come in una partita a tennis ora schiacci, ora rimandi, ora stai lungo sulla linea per segnare ogni volta il punto infilando la pallina proprio nell’ultimo centimetro, dell’ultimo angolo. Hai delle armi potenti, tu, affilate nei lunghi giorni trascorsi con la babysitter di turno, arrotate davanti alla tv, mentre aspettavi che rientrassi dal lavoro o perfezionate quando chino sui libri mi ripetevi per l’ennesima volta le declinazione latine. E le usi con maestria, forte dell’onnipotenza che attraversa ogni singolo atomo della tua età. Quanto vorrei che tu fossi felice, che scoprissi il piacere di creare, di inventare, che ti dessi la possibilità di viaggiare e conoscere e comprendere e avere non una, ma cento visioni differenti del tuo reale. Come vorrei vederti ardere dal sacro fuoco della conoscenza per formarti alla palestra della vita e insieme a chi ami tessere la tela del tuo futuro riconoscendo da dove vieni, le tue radici, chi sei e chi siamo senza per questo provare vergogna o imbarazzo. Come vorrei che questo momento, che mi hai regalato inconsapevolmente, non finisse mai, ma si cristallizzasse e ci legasse più profondamente, più significativamente fino a farci sbocciare in due entità distinte, separate, ma sempre vicine e sintonizzate l’una con l’altra. Hai riaperto gli occhi, mi hai guardata e ancora una volta mi hai fatto tremare il cuore. Ho atteso una parola, un gesto qualche cosa che mi permettesse di continuare a star li a mendicare un po’ di presenza invece tu, con una capriola, sei atterrato sul tappeto e mi hai sorpresa con un sorriso giulivo ignaro dello scorcio che mi avevi permesso di intravedere, di gustare, di sentire. Oplá, fine delle trasmissioni, la festa è finita prego accomodarsi e io, con le mie lacrime in tasca, non sia mai che tu le possa intravedere, ti riconsegno i tuoi confini, i tuoi spazi, le tue dimensioni e ritorno nel mondo parallelo, quello noioso, serio, arrabbiato, quello che c’è comunque vadano le cose, quello che, anche se non ti piace e ti sta stretto e in ogni caso non corrisponde a quello che vorresti, esiste ed è anche tuo, perché una madre c’è sempre, anche con le porte chiuse, le parole taciute, gli sguardi di sfida. Una madre rimane lì, con le sue lacrime in tasca e la caparbietà di un leone per difendere o per spingere, ruggire o custodire, rimane lì a fare il meglio che può con quello che ha. Come sempre. Ricordalo questo e ricordati anche di maneggiarla con cura, tua madre, perché hai solo lei che vuole essere la migliore possibile.
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