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Considerazioni volanti di un neo Coach

Mi occupo di formazione manageriale e ho incontrato il coaching da relativamente poco, ma è stato amore a prima vista. E’ stata una scelta ponderata quella di intraprendere due professioni che, se da una parte sembrano distinte, hanno in realtà importanti punti in comune (la gestione della comunicazione, la relazione, l’empatia) e forniscono l’una all’altra valore aggiunto. Quando sono in aula, trasmetto i contenuti con una modalità induttiva, maieutica e coinvolgo i partecipanti in riflessioni che danno esiti molto interessanti, per me, e utili, per loro. Quando invece mi trovo in sessione di coaching, quegli stessi contenuti mi forniscono elementi per essere più efficace. Uno dei miei cavalli di battaglia in formazione, è il “problem solving”, che insegna che riusciamo a risolvere i problemi e ad arrivare ai nostri obiettivi quando siamo in grado di generare diverse opzioni e a vagliarle secondo indicatori concreti che ci portano poi a decidere ciò che è più opportuno e quindi a realizzarlo. So che gli ostacoli al problem solving sono diversi, ad esempio avere una sola ipotesi, una sola idea; ancorarsi a quella e non darsi la possibilità di vedere altro; fermarsi a quello che è accaduto in passato senza rileggerlo sulla base della contingenza e dei cambiamenti che inevitabilmente sono avvenuti; pensare che, solo perché un accadimento è andato in un determinato modo, debba ripetersi in maniera uguale. Ne consegue spesso la standardizzazione della soluzione, ma anche non essere in grado di andare oltre l’apparenza della situazione, o delle persone e non valutare l’opportunità di saper ampliare il proprio punto di vista e bypassare la visione in bianco/nero. Quando sono in sessione di coaching, allora, cerco di evitare queste trappole. È vero, forse il problema che il coachee mi riferisce a prima vista può sembrare già sentito, ma il coachee che ho davanti è altro rispetto a chi ho incontrato prima. È una persona nuova, diversa, che porta dentro di sé un mondo di esperienze ed aspettative. Se mi fermo alla definizione superficiale e generalizzata del suo obiettivo, allora rischio di lavorare con lui come ho fatto con un altro, ma il suo pregresso è diverso, come lo sono le persone attorno a lui, e le risorse che possiede. Devo quindi prendere in considerazione il suo contesto e come il coachee si muove al suo interno, senza farmi contagiare da quella che chiamo “sindrome dell’esperto”, ovvero: “siccome ci sono già passata, so come va a finire”. Non è vero… non posso saperlo. Il problem solving mi insegna anche che non posso accontentarmi delle informazioni disponibili ma devo andare a ricercare tutte quelle che sono necessarie per aver chiara la situazione e allora faccio tante domande. Fondamentalmente credo che il coaching mi piaccia tanto proprio perché mi porta a stupirmi, a farmi cambiare idea e a vedere in multicolor. E mi piace vedere come ogni coachee arrivi alla sua soluzione, non a quella perfetta, che non esiste, ma a quella più adeguata per lui, che lo fa star bene e che lo conduce al suo risultato. Io dal mio canto ho raggiunto il mio obiettivo e ho deciso che da “grande” voglio fare il coach!!!!!

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