Coaching e scrittura di sé.
Percorsi della memoria per immaginare il proprio futuro.

Siamo dei raccontatori nativi, dotati di una memoria autobiografica, nel senso che pensiamo e ricordiamo per immagini e possiamo, attraverso le parole, lo sguardo, le pause, il tono della voce, raccontare qualsiasi cosa. L’atto del racconto presuppone che ci sarà qualcuno che mi ascolterà, che mi guarderà, che mi leggerà, che sosterà nelle mie parole.
L’auto – narrazione aiuta nell’indagine della struttura ‘copionale’ della persona. E, all’interno di una organizzazione, aiuta a individuare i punti d’incontro e i nodi disfunzionali della relazione azienda-collaboratore.
La scrittura di sé, in ambito aziendale o personale, va proposta osservando precise ‘cautele’ di consegna e di restituzione, soprattutto se la scrittura diventa veicolo per allenare la memoria nel recupero di parti di sé obliate e per accedere ai dati della propria realtà.
Nell’ambito del coaching, la scrittura di sé può diventare spazio di libertà e sospensione, può consentire di dar voce alle emozioni, di prendere coscienza di sé e del proprio mondo. Può rappresentare una preziosa risorsa nel prendere contatto con i propri desideri, i timori, le paure, e individuare una nuova chiave di lettura – potere trasformativo – prendendo le distanze dal fare quotidiano. Una volta scritte, le parole assumono un corpo, una fisicità che è quasi possibile toccarle. La scrittura dà una mano nel comprendere meglio e nel ripercorrere strade intraprese, scelte fatte, lasciate in sospeso o abbandonate, aiuta nel costruire la trama della nostra personale storia. “…attraverso la neurolinguistica e la grammatica trasformazionale di Noam Chomsky è possibile leggere le scelte stilistiche, sintattiche e grammaticali come indicative della struttura profonda – Mappa – sino a com-prendere quello che potrebbe essere definito il ‘non verbale’ della scrittura.”
(1981 BANDLER R. e GRINDER J.), (1998 PINKER S.), (2005 LUCCHINI A.)
Attraverso la scrittura si attivano sinapsi, collegamenti neuronali che coinvolgono diversi centri nervosi, influenzando l’attività del pensiero, e sollecitando cambiamenti.
La memoria appare come un inesauribile contenitore di ‘risorse’, pronte all’uso; ma anche come un presidio di continuità e unicità del nostro essere al mondo, che contribuisce ad attivare – e sostenere – quel processo di cura e di attenzione su di sé, slegato da dinamiche meramente narcisistiche o di stile.
“Gli individui costruiscono narrazioni per comprendere fatti o avvenimenti (…) essi influenzano con le proprie azioni il corso di questi eventi, ma, al tempo stesso sono da questi eventi condizionati quando devono realizzare i propri progetti (…) La struttura schematica di una trama è visibile nel numero illimitato di narrazioni che, entro certe condizioni, un individuo può costruire per cercare di comprendere gli eventi e le situazioni del suo ambiente e quindi intervenire su di essi.” (2004 SMORTI A.)
Un vincolo potrebbe essere rappresentato dall’idea personale che ognuno ha sulla ‘bella scrittura’, intesa come scrittura sintatticamente corretta. Fantasma che ci in-segue dall’infanzia. La logica meritoria, la caccia all’errore ortografico, al fuori traccia, conteneva e limitava qualsiasi libertà espressiva, impacchettava qualsiasi velleità narrativa che oltrepassasse i confini dell’ortograficamente e sintatticamente corretto. Unica scelta possibile: lasciare la scrittura, fonte di frustrazione!
Ma, per fortuna, la scrittura può essere paragonata a un muscolo. “…la scrittura viene dal nostro corpo, non solo dalla nostra testa. Scrivere è un’attività, un’azione prima di un pensiero o di una teoria. Come tutti i muscoli quando non la si usa tende ad atrofizzarsi, per raccontare storie bisogna tenersi in allenamento. Fare esercizi di storie, una piccola palestra per mantenere il giusto tono muscolare. Non si inizia a correre di scatto, non si entra in campo partendo come un razzo, altrimenti i muscoli protestano, si bloccano poco dopo o si contraggono in dolorosi crampi. C’è una fase preliminare detta di riscaldamento nella quale si vedono i muscoli scrittori e narratori prendere forma e tono. Neanche con le storie si parte a freddo, ma piano piano riscaldando… “ (2001 SIDOTI B.)
La scrittura può quindi essere allenata, incoraggiata e prestarsi a diventare, nel rispetto dei tempi e dello stile di ognuno, strumento di attenzione su di sé in un percorso di coaching.
Lo scopo è attivare uno sguardo d’insieme, in cui ogni singolo tassello contribuisca a restituire un ‘senso’ narrativo, ad attribuire significato, i cui passaggi principali sono le azioni con i loro risultati, i pensieri e le emozioni correlate, gli incontri apicali, le difficoltà attraversate, le svolte. Divenire autori consapevoli del proprio romanzo di vita, significa poter anche recuperare strategie, modalità e apprendimenti da mettere al servizio di nuovi comportamenti, dopo aver identificato cosa si vuole ottenere, raggiungere.
La scrittura aiuta a collocare temporalmente un ricordo, un evento, uno stato che ne permetta una comprensione diversa. La scrittura così intesa diventa ‘amica’: aiuta a fare pace col proprio passato, a mitigare lo sguardo verso errori fatti (presunti o reali) o torti subiti, progettando il proprio futuro, immaginando possibili evoluzioni, per rendere coerente e narrabile – rispetto ai propri desiderata e motivazioni – un percorso completamente rinnovato.
Ovviamente l’ingresso della scrittura di sé in sessione richiede un’attenzione dedicata, va testato il grado di accettazione e disponibilità da parte del coachee, va contrattualizzato l’impegno, vanno definite le modalità e, soprattutto, dichiarati gli scopi che si vogliono raggiungere (patto narrativo). Quest’ultimo intento va sempre definito con estrema chiarezza. Si procede poi in ‘ambiente coaching’, potenziando quel corredo di domande utili a generare un racconto del sé. La comunicazione diretta è essenziale e facilita lo scambio all’interno della sessione. Nella lettura spontanea di alcuni brani, selezionati dal
coachee, il lavoro di ascolto del coach deve essere totale, senza cedere a giudizi ‘spontanei’, assicurando la giusta distanza dal narrato: il rischio di coinvolgimenti personali e di scivolamenti empatici potrebbe essere elevato. Il presidio del processo di coaching preserva dalla possibilità di sovrapporre elementi personali con quelli del cliente, a scapito della sessione.
Quando proporla? Qual è il momento ‘migliore’ per introdurre lo strumento di scrittura?
Difficile definire ‘il’ momento in assoluto, è possibile già dalla prima sessione o in seguito, quando si sono create le premesse. Al coachee va dichiarato che potrebbe essere impiegata la scrittura di sé per una ricerca retrospettiva di significati, per stabilire una continuità, per riconoscere il filo narrativo che connette il passato al futuro. Per recuperare un’esperienza, per ritrovare risorse e stati d’animo, che hanno favorito il raggiungimento di un certo risultato collocabile sull’ascisse del tempo. Lo scopo è elicitare potenzialità sopite e “tenere insieme la molteplicità e l’incompiutezza dell’io contemporaneo e il suo bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuto” (1999 MELUCCI A.).
Non ci saranno da parte del coach pressioni di alcun tipo, e il materiale prodotto sarà strettamente riservato e non cedibile ad altri, salvo che il cliente non decida di renderlo pubblico. Al coach, il compito di informarlo del possibile utilizzo della scrittura e degli scopi. Al coachee, la possibilità di decidere se aderire o no.
(Matilde Cesaro terrà il corso “Story telling Coaching” https://www.lifecoachitaly.it/corsi/story-telling-coaching/ , a Roma dal 17 al 19 aprile 2020)
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