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Intervista a Duccio Demetrio. La scrittura autobiografica (prima parte)

L’ istinto autobiografico obbedisce ad un bisogno di fare un po’ di ordine nei ricordi, nelle storie, nelle memorie che abitano la vita di ciascuno di noi. Professore ordinario di Filosofia dell’ educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’ Università degli studi di Milano- Bicocca, Duccio Demetroo ha fondato e dirige la Libera Università dell’ Autobiografia di Anghiari (Ar), Graphein. Società di pedagogia e didattica della scrittura( www.lua.it), Accademia del silenzio. Tra le sue opere più note, su questi temi: Raccontarsi (Cortina, 1996), Autoanalisi per non pazienti (Cortina 2003); La scrittura clinica (Cortina, 2008); Perché amiamo scrivere (Cortina, 2011); I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora (Mimesis, 2012). In cosa la scrittura autobiografica si distingue dalle altre scritture? E quando possiamo parlare di autobiografia? Prima di rispondere, credo sia importante rammentare quale sia il ruolo della scrittura agli effetti dello sviluppo mentale di chi se ne avvalga con regolarità, sia per ragioni personali, sia per motivi professionali. Non possiamo dimenticare che la scrittura obbedisce a modalità narrative e cognitive ben diverse da quelle di cui si avvale l’ oralità. A meno che questa, ovviamente, non venga ordinata secondo le forme e le strategie dello scrivere come ad esempio quando parliamo ad un pubblico non “a braccio”, ma seguendo un filo logico al fine di attrarre ascoltatori ai quali chiediamo di diventare “lettori” del nostro pensiero. Quando scriviamo inoltre – di solito – non siamo “sensibili” al contesto, agli interlocutori, agli umori del momento. In tali casi la conversazione, il battibecco, la reciproca interruzione (la TV docet!) si uniforma a modalità extratestuali. Possiamo abbandonarci ad una maggiore mancanza di regole, non tollerata dalla scrittura. A meno che, ma per esperimenti letterari d’ avanguardia non si intenda imitare l’ oralità, appunto introducendo le sue manifestazioni meno metodiche e sorvegliate. Ci abbandoniamo ai suoi flussi disordinati, alla foga interlocutoria, alla dialettica di un parlato che si attenua invece non poco quando prendiamo una penna in mano o – oggi – digitiamo su una tastiera. L’ esercizio interattivo di internet, in fondo, spesso risponde ad una cosiddetta “oralità di ritorno”. Ad un bisogno di raccontare e raccontarsi non per gli stessi scopi tradizionalmente assegnati alla scrittura. Sui social network non facciamo altro che tradire lo scrivere, anche se ce ne avvaliamo. Mentre, scrivendo, quale sia la natura del nostro testo – poetico, letterario, epistolare, autobiografico, saggistico e tanto più se scientifico o filosofico -, in ogni caso, avremo preso la penna tra le dita ( o i tasti al suo posto) per “mettere a sistema” idee e frasi, emozioni, rappresentazioni sofisticate – o anche semplici e senza pretese – di se stessi o del mondo. Per offrire al lettore un insieme concettuale (indipendentemente dall’ intenzione volta a suscitare pensiero, piuttosto che emozioni) capace di interessarlo e di fargli comprendere che cosa vogliamo comunicargli; perché intendiamo risvegliare in lui o lei un’ attenzione affettiva, un coinvolgimento sentimentale, una passione. Può bastare anche la lettura di una sola parola, di un enunciato essenziale, di un epigramma a suscitare un effetto sistematizzante e “ordinatore”. Infatti, quella breve (pur modesta ed effimera) traccia semantica è in grado di generare ragionamenti, analisi, riflessioni che la dilatano e la riconnettono ad una miriade di ulteriori elementi e potenzialità di carattere narrativo. La cui funzione, per la configurazione stessa della nostra vita celebrale, sarà appunto riordinatrice. Dopo queste premesse, affrontiamo il senso della scrittura autobiografica. In primo luogo, si tratta di un genere compositivo complesso, poiché ci troviamo dinanzi ad una scelta, non contingente e momentanea (a differenza del diario, della lettera, dell’ appunto, ecc), ispirata da un desiderio che precede la stessa decisione di scrivere. Quali motivazioni sottendono la scrittura della propria autobiografia? L’ istinto autobiografico, come più volte ho scritto, obbedisce ad un bisogno di fare un po’ di ordine nei ricordi, nelle storie, nelle memorie che abitano la vita di ciascuno di noi. Tale progetto, si potrebbe obiettare, può realizzarsi anche mentalmente, oppure, possiamo rilasciare una lunga intervista ad un interlocutore, ad esempio ad un biografo: ma, e questo sia chiaro, ben diverso è avvalersi dello strumento scrittura in prima persona. Nel coraggio, fra l’ altro, di dedicarsi ad una simile impresa le cui ricadute sono anche sociali: in quanto lasciamo una testimonianza – o una versione della vita che abbiamo avuto e attraversato – esposta ai lettori a noi graditi o sgraditi. Dal momento che, sia chiaro, noi accediamo a un’ attività autobiografica quando siamo ben consapevoli che quanto scriveremo non potrà essere una fiction, un gesto anarchico di libertà creativa. Se scegliamo il genere autobiografico, e non nella prospettiva di deformare totalmente la nostra storia e immagine, ma di ripercorrerla con l’ intento di scrivere un testo che ci assomigli in modo verisimile e che, nei limiti del possibile, possa almeno in parte essere confermato ( rispetto a racconti, fatti, episodi salienti, ecc) da altri che hanno avuto la fortuna o la sfortuna di attraversare la nostra strada. L’ autobiografia, per tali ragioni attrae o respinge, anzi sovente fa paura: poiché ci chiede un serio impegno autoanalitico e introspettivo, poiché risveglia fantasmi del passato connessi a errori, a sensi di colpa, a ferite dell’ animo e del corpo. In che modo la scrittura della propria autobiografia cura e genera cambiamenti? Nonostante questo, sono una miriade indeterminabile – nel corso dei secoli – le donne e gli uomini i quali, solitamente negli anni di mezzo della loro esistenza, o anche prima, che senza che qualcuno li sollecitasse sono ricorsi alla scrittura di se stesse, soprattutto in momenti difficili e critici della loro vita, pur dotate di poca istruzione e sovente autodidatte. Più che per lasciare una testimonianza, perché si accorsero e si accorgono – oggi anche usando le nuove tecnologie digitali – che lo scrivere allevia il disagio; allenta la tensione; produce uno sfogo salutare; lenisce e sutura simbolicamente qualche ferita del corpo e dell’ animo; facilita la elaborazione del dolore, delle sconfitte, dei lutti e delle perdite. Si riconoscono oggi alla scrittura, anche in ambiti scientifici e clinici, prerogative e compiti efficaci di carattere auto-curativo e, in alcuni casi, terapeutici. Come è dimostrato da scrittori e scrittrici famosi che si “salvarono” scrivendo. Non dobbiamo però dimenticare l’ infinita moltitudine di sconosciuti e di autobiografi, i quali attraverso la scrittura di pagine che resteranno per sempre senza editore, senza eredi, senza lettori hanno potuto raccontare la loro storia personale e sentirsi meno soli, meno abbandonati, meno “vuoti”. Il sentimento della mancanza delle nostre vite, viene quindi anche simbolicamente “riempito” dalle pagine che redigiamo a mo’ di sollievo momentaneo, di lenimento; in altri casi, la scrittura autobiografica compiuta e pubblicizzata, proprio perché genera risonanze sociali, può essere la fonte di nuovi incontri, contatti, riconoscimenti. Insomma le dobbiamo una crescita dell’ autostima. Sia che tutto questo investa il nostro privato o ci esponga pubblicamente secondo la vocazione naturale dello scrivere: essere letta e comunicare.|||

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