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Intervista ad Andrea Fontana. Come usare lo storytelling

Andrea Fontana, esperto di corporate storytelling, insegna “Storytelling e narrazione d’impresa” all’Università di Pavia e “Metodologia della formazione” all’Università di Milano-Bicocca. Lavora con aziende nazionali e internazionali. E’ autore di diversi testi e saggi di cultura manageriale tra cui il primo manuale italiano di narrazione d’impresa: Manuale di Storytelling, edito da ETAS-Rizzoli. E’ Amministratore Delegato di Storyfactory e Presidente dell’osservatorio italiano di Corporate Storytelling presso l’Università di Pavia. Lo storytelling può essere identificato semplicemente come un “raccontare storie” tout court? Assolutamente no. Lo storytelling non è il raccontare storie. Tra l’altro se dovessimo tradurre il termine storytelling in Italiano non dovremmo tradurlo con “raccontare storie” ma con la locuzione: parlare attraverso racconti. Noi confondiamo i termini “storia” e “racconto”. Una storia è un evento che avviene in un certo spazio e tempo (sono nato nel … è successo che… etc.) un racconto è la rappresentazione di quel fatto/evento con i suoi protagonisti, le sue lotte, i suoi problemi, le sue variabili, le sue motivazioni e infine i suoi esiti. Lo storytelling quindi è quella scienza che studia come è fatto e si è costruito il racconto personale e istituzionale (di un individuo e / o di una organizzazione) per poi orientarlo in modo più efficace rispetto a bisogni di sviluppo personale / organizzativo e di crescita / coinvolgimento sociale. Per cui fare storytelling significa capire il racconto personale o organizzativo di partenza, ridefinirlo in base ai nuovi obiettivi (individuali o istituzionali) costruendo i mezzi e i canali con cui diffonderlo verso gli altri, per coinvolgerli e appassionarli. Come si costruisce una storia? Quali caratteristiche deve possedere? Una “storia di vita” o di “organizzazione” e quindi un “racconto di impresa” (perché la vita è una impresa) si costruisce su format specifici che definiscono il copione psicologico dell’individuo o dell’organizzazione. Ci sono moltissimi copioni possibili (su questo consiglio l’ottimo libro di Alessandra Cosso, Raccontarsela, edito da Lupetti editore, nella collana che dirigo: Story-line) ma i più diffusi rimandano al cosiddetto schema narrativo canonico. Che competenze e attitudini deve possedere uno storyteller? Le storytelling skills sono un mondo molto ampio di abilità. Non si parlare di storyteller tout court ma di storyteller che si applica a una funzione-compito. Cioè all’interno di un percorso narrativo c’è bisogno di 4 competenze di base: · Aalisi e strategia, per sapere cosa raccontare a chi (qui si parla di “strategic narrative expert”) · Content creation e management, per costruire e organizzare e far fruire i contenuti adatti per i pubblici che si sono scelti (qui parliamo di “content storyteller”) · Visual curation, per definire l’immaginario visivo dentro cui inserire una storia-racconto (qui parliamo di “visual storyteller”) · Experience design, per elaborare la migliore esperienza narrativa possibile con i migliori tools e media (qui si parla di “storytelistening esperience designer”) In sostanza se voglio raccontare qualcosa a qualcuno dovrò conoscere bene quel qualcuno, definire molto bene i contenuti e l’immaginario percettivo (immagini, suoni, odori, etc.), e infine allestire un ambiente (reale e/o virtuale) dentro il quale la mia storia, anzi i miei racconti, e quelli dei miei pubblici si incontreranno. A cosa serve lavorare con le storie in azienda? L’approccio narrativo all’interno delle aziende (o Corporate Storytelling) serve oggi a moltissime attività che sono riconducibili ad alcune grandi aree: · Fare analisi (interne e/o esterne). Per esempio: analisi di clima e cultura o analisi di consumo e trend · Gestire il cambiamento culturale (dentro e fuori l’azienda). Il cambiamento necessità di nuovi modi di percepire il mondo (sense-making) e lo storytelling aiuta in questo. · Creare identità e relazioni. All’interno del mercato avere una identità definita e raccontabile è un elemento differenziate di valore. Ma non sempre la “mia” storia è interessante e quindi bisogna avere il coraggio di rimettersi in discussione e ri-raccontarsi (per sé e per gli altri). · Generare interesse commerciale (story-selling). La narrazione in questo caso diventa un dispositivo di collegamento più reale e trasparente con i propri pubblici che vogliono aderire a un racconto di vita o brand o prodotto (racconto che diventa un gesto di coinvolgimento e non di vuota retorica). · E ovviamente utilizzare il racconto del sé come tecnica di coaching… La narrazione non è mai innocente…come si coniuga autenticità e congruenza del messaggio narrativo con etica e valori personali e professionali? Ogni racconto porta con sé un punto di vista. Non esiste un’innocenza in questo, è vero. L’unico modo per evitare un’incongruenza è coinvolgere il più possibile i propri pubblici (lettori) nella costruzione della propria storia e istaurare una conversazione sincera con chi ti legge, ascolta, vota o compra. C’è bisogno di passare da una cultura organizzativa del controllo totale (il “mio brand è mio”) a una cultura del controllo condiviso (il “mio brand raccontato non è più solo mio, ma diventa parte delle vite delle persone a cui mi racconto”). In che modo è possibile raccontare l’azienda e la sua identità? Occorre innanzitutto capire che la narrazione di partenza non necessariamente è interessante. Tutte le storie sono importanti, ma non tutte sono interessanti. Un racconto non è solo di se stessi ma anche dei lettori a cui si rivolge, per cui il primo atto è capire se il racconto che possiedo è interessante o no. Questo è un esercizio di auto-ascolto e auto-riflessione molto importante che può mettere molto in discussione individui, comunità e organizzazioni. Poi una volta compreso il livello di sociabilità a cui il proprio racconto può e vuole aspirare si inizia a definire il contenuto di questa identità narrabile. E infine si definiscono e costruiscono i media dentro cui ci si vuole raccontare perché ogni storia si incarna: nella carta, in un video, in una foto, in una parola sussurrata con emozione alla radio, etc. E che impatto ha sui clienti interni e i portatori d’interesse? Ha grande impatto. Gli studiosi di scienze della narrazione sostengono che esiste un rapporto di 1 a 3. Consiglio su questo punto l’interessante studio: “Significant Objects. 100 Estraordinary Stories about Ordinary Things”, di Rob Walker e Joshua Gleen. In questo volume gli autori espongono con un esperimento sociale che hanno realmente fatto. Gli autori, che sono giornalisti americani, hanno comprato – qualche anno fa – 100 oggetti banali (da circa 1 dollaro l’uno) e affidato ogni oggetto a un autore di racconti loro amico. Hanno poi messo i diversi oggetti in vendita su e-bay, il risultato è stato straordinario. Da un investimento iniziale di 100 dollari si è arrivati a 3.700 dollari circa con tutti gli oggetti venduti. E il tema qui non è la vendita di un oggetto ma il significato narrativo che costruiamo intorno alle “cose” (interne o esterne a noi) che facciamo nostre. E in che modo è possibile raccontare il proprio sé professionale? Nello stesso modo indicato per il “sé organizzativo”: capire se il mio racconto è interessante per me e per gli altri, definire i nuovi ambiti di sviluppo, attuare questo sviluppo con strumenti (cartacei, relazionali,m web, etc.) coerenti e sostenibili con le risorse possedute. Un regalo per i nostri lettori un primo esercizio per narrare il proprio sé professionale… Il primo è questo. Disegnare di fronte a se una spirale. Il punto iniziale della spirale è la propria data di nascita. La parte 1 di questo esercizio consiste nello segnare sulla spirale i 6 o 7 momenti di vita più importanti (nel bene e nel male) con relativa età ed anno di accadimento. Dare a questi momenti dei titoli e poi provare a raccontare questi episodi secondo una sequenza lineare. (Già qui ci accorgiamo che a seconda di come raccontiamo / rappresentiamo questi episodi possiamo dare di noi diversi tipi di immagine) La parte 2 è più interessante e ovviamente difficile. Prendere questi stessi episodi e modificare radicalmente titoli (magari da drammatici renderli comici, o da comici renderli epici) e provare a raccontare pezzi diversi di storie ri-scrivendo parti della propria identità. All’inizio è quasi scioccante ma poi diventa terapeutico e molto istruttivo per capire come la narrazione può costruire significati e orientare processi cognitivi ed emotivi.|||

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