Intervista a Duccio Demetrio: la scrittura autobiografica (seconda parte)

L’ istinto autobiografico obbedisce ad un bisogno di fare un po’ di ordine nei ricordi, nelle storie, nelle memorie che abitano la vita di ciascuno di noi. Quali sono le emozioni ricorrenti connesse alla pratica del ricordare? Voglio ribadire che un autobiografo vive i momenti emozionali durante il progredire del suo scrivere. Questa è la ragione per la quale chi termina un’ opera di tale natura, solitamente, poi continua a scrivere per ritrovare gli stati di grazia (tali possono essere anche quelli che risvegliano sofferenze che si volevano obliare) provati durante quei momenti. Tutti costoro, di chiara fama o ignoti, seppur talvolta scoperti e apprezzati dopo la loro morte, hanno avuto modo divivere un poco di benessere scrivendo, grazie ai benefici effetti – ancora una volta ordinatori – di tale attività strettamente individuale. Hanno così potuto e saputo sperimentarsi redigendo pagine e pagine che, come donne o uomini, li hanno messi a confronto con poteri che la scrittura man mano ha rivelato loro, che rappresentano un antidoto, un farmaco, un balsamocontro ildisordinementale, esistenziale, emotivo. Scrivendo della nostra vita, nella presunzione coraggiosadi raccontarla nella sua complessità e interezza, o soltanto rispetto a scene salienti e cruciali, ciascuno si avvede che per raccontare deve dare unasuccessione cronologicaagli accadimenti; deve avvalersi delleregolestesse dello scrivere; deve darsi unmetodoe un’autodisciplinasia cognitiva che inerente le condizioni di cui qualsiasi scrittore o scrittrice ha bisogno:silenzio, solitudine cercata, concentrazione, continuità applicativa,ecc. Inoltre deve scegliere temi, argomenti, fatti, classificare ricordi: introducendocriteri ordinatoriinerenti che cosa e come dire e tacere, che cosa mettere al primo posto e che cosa ritenere secondario. Da quanto accennato come potrebbe una scrittura portata a termine secondo questi metodi autoindotti o sollecitati nelle esperienze formative (così comele proponiamo alla Libera Università dell’ Autobiografia di Anghiarida oltre quindici anni), non generare cambiamenti dentro di sé e nelle nostre relazioni sociali ed affettive? Scrivere di sé è anche mettersi in ascolto degli altri? E in che modo ciò accade? La scrittura autobiografica, che all’ apparenza potrebbe sembrarci un genere solipsistico – e in parte lo è durante il suo divenire per chi l’ esercita – è un antidoto anche alle esuberanze narcisistiche o auto-celebrative. Pur essendo indubbiamente vero che ci sono scrittori e scrittrici che si dedicano all’ autobiografia per tali motivazioni consce o inconsce, tuttavia, gli altri sono sempre presenti. Come destinatari delle nostre pagine, ma soprattutto come presenze, ombre, fantasmi persecutori o protettivi della nostra vicenda umana. Ogni scritto, anche il più introspettivo, è abitato dagli altri che ci hanno generato, che abbiamo amato o odiato, tradito o accudito.Dalle storie che abbiamo ascoltato, da chi ci ha preceduto e che si collocano quindi all’ interno di saghe famigliari, di narrazioni collettive. Un testo autobiografico, ma anche un romanzo, altro non è che unplot: un insieme di intrecci, copi di scena, trame, ecc. E, per queste sue peculiarità,ciricolloca nei flussi dell’ esperienza narrativa. Narrare è, del resto,pratica ed esperienza umana necessaria e fisiologica al nostro stare al mondo. In quanto tale, essa è volta a produrre testi orali o scritti: i quali letteralmente sono “oggetti”dotati di una intrinseca proprietà atta a stabilire intrecci di carattere logico tra le parti del discorso. In due direzioni: da un lato, lo stimolo può aiutarci a riorganizzare quanto già sappiamo, a confermare le nostre certezze; dall’ altro, esso può protendersi verso territori ignoti, suscitando congetture mai frequentate. In base a fenomeni intrapsichici e relazionali che hanno a che vedere con la creatività, l’ innovazione, la fantasia; i cui esiti originali saranno comunque “compositivi”. Vocabolo il cui potere riordinatore, ancora una volta, non può certo sfuggirci e che il genere autobiografico senz’ altro enfatizza, preordina e conduce verso la conclusione della storia che avremo saputo e voluto darle. Voglio aggiungere, in conclusione, che la scrittura autobiografica è uno strumento anche professionale di grande importanza. E’ un processo grazie al quale, e insieme al quale, è possibile dare dignità, anzi uguale dignità a qualsiasi storia di vita: quando ci occupiamo delle biografie di coloro, pazienti, persone in sofferenza esistenziale e disagio sociale, che non possono o vogliono scrivere di sé… E di nuovo, a differenza di quanto avviene nell’oralità, se chi ascolta potrebbe distrarsi, chi legge è più attento,ha davanti un testo che non può essere “tradito”. E di nuovo la ricerca di sé procede e avanza. “Chi indaga su se stesso – diceva il poeta Cioran – “finisce per indagare prima o poi su tutto il resto”. Lo sguardo si apre all’altro, al cosmo, alla vita. Non si auto confina, poiché scrivendo hai guardato fino in fondo nel tuo animo e, nella solitudine che puoi aver vissuto, l’ hai messa in fuga generando un tuo alter ego con il quale farai ancora e ancora i conti. Imparando uno stile mentale e di vita più autoriflessivo e pensoso. Chi impara ad accogliere se stesso, accoglierà l’altro; purché chi professionalmente voglia avvalersi di tale metodo,si disponga prima di tutto ad applicarlo a se stesso.Non si può, eticamente, chiedere ad altri di scrivere la propria vita se un analogo tirocinio auto formativo non l’ abbiamo intrapreso. Infine cosa accade quando durante la scrittura autobiografica, si risvegliano ricordi indesiderati? Una scrittura che intraprenda con determinazione un cammino autobiografico, non episodico, non ludico o soltanto alla ricerca del benessere momentaneo che può offrirci, è aperta ad ogni rischio. Come diceva Lacan la pagina dinanzi a noi riaccende i fantasmi del nostro passato: traumi che si reputava fossero stati superati, sensi di colpa, ferite ritenute ormai rimarginate, senso di vuoto e mancanze esistenziali. Rispetto alle quali non c’è rimedio. Il metodo autobiografico, autodiretto o sollecitato, è sempre un viaggio verso l’ ignoto. Se quanto di indesiderato riaffiora e il dolore si fa insopportabile è meglio smettere. A meno che, come avviene allo Studio SCRIBA di Milano (duccio.demetrio@lua.it), non si voglia proseguire con l’ accompagnamento di un consulente autobiografo formatosi ad Anghiari o di uno psicoterapeuta con equivalente formazione. La scrittura autobiografica è in ogni caso una sfida con se stessi che alcuni accettano fino in fondo, nella soddisfazione poi di aver come vinto una lotta contro le resistenze della memoria e dell’ inconscio; che altri al contrario o respingono oppure aggirano scrivendo soltanto ciò che possa non nuocere più di tanto. Occorre quindi muovere assai cautamente verso la meta finale: anche con la collaborazione di una figura clinica, quando le fragilità siano eccessive. Ma se quelle cento e più pagine, pur grondanti di dolore, di inquietudine e di tensione, alla fine riusciremo a scriverle ci troveremo dinanzi ad un traguardo che ci è costato caro pur sempre fonte di autostima. Avremo tra le mani il nostro libro, costatoci molto tempo e fatica, ci guarderemo in uno specchio che forse non ci assomiglierà del tutto, ci sentiremo svuotati e al contempo più ricchi di un’ energia derivante dalla consapevolezza di aver ben speso il nostro diritto a non consumare soltanto la vita, tra le opere e i giorni, ma a rileggerla e reinterpretarla grazie al testo, alla trama, agli intrecci secreti dalla nostra consapevolezza di non esistere invano.
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