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L’amore è cieco, ma si può amare anche a occhi aperti

Il potere dei segnali deboli

Nel 2005 ho scritto un articolo con questo titolo, l’ho riproposto nel 2013 e dopo 13 anni  è ancora terribilmente attuale. Dal 2000 a oggi sono morte 3000 donne, 106 dall’inizio di quest’anno, c’è chi ha calcolato che ogni  72 ore venga uccisa una donna quasi sempre dai compagni o mariti. Quegli stessi uomini a cui le donne hanno donato il cuore e amato con fiducia. Troppe donne ogni giorno subiscono percosse, ingiurie, minacce, violenze sessuali e la maggioranza di loro non rientra nei numeri ufficiali della cronaca, restano sommerse tra le mura domestiche. E ci sono troppi bimbi che vivono il doppio trauma di perdere la mamma, sapendo che il colpevole è il padre.

Questa strage infinita ha connotati familiari, sociali, culturali, politici, mediatici che impattano sulle singole drammatiche storie di vite spezzate e di bambini che non sorridono più. Siamo tutti in parte corresponsabile di questi femminicidi, ogni qualvolta usiamo o subiamo linguaggi, parole, battute, intolleranza, mancanza di rispetto, immagini che veicolano migliaia di messaggi diretti o sublimali che tendono a indebolire le donne o le vittime di turno.

Difficile controllare tante variabili esterne, ma su un terreno abbiamo la certezza di poter intervenire, è l’ambito delle nostre scelte, della possibilità di aprire o chiudere gli occhi, del contatto con la nostra dignità che non va mai perso per nessun motivo.

Ci sono relazioni sbagliate, che mandano segnali sinistri in cui certe donne restano invischiate come le vittime nella tela del ragno. Si adeguano, subiscono, diventano gradualmente ciò che l’uomo si aspetta che siano. Razionalmente è facile la diagnosi, è semplice dire come fare per star bene, come allontanarsi ai primi segnali di pericolo, ma dalle parole ai fatti le cose si complicano. I rapporti logoranti, si continuano a logorare. Troppo spesso sento donne credere in quel poco che basterebbe per farlo “cambiare”, non ci vorrebbe niente ad essere “felici”… “se solo lui capisse”, e così via. Sono donne anche autonome nel lavoro, capaci di cavarsela in tutte le situazioni, senza bisogno di salvagenti o zattere, in grado di difendere le proprie idee, ma accompagnate da un sottile senso di inadeguatezza, spesso così profondo da costringerle a cercare continue rassicurazioni affettive, peraltro mai appaganti del tutto. E così agiscono solo per compiacere l’altro, indossano panni che non condividono, in attesa di un suo gesto, di una parola, perdendosi di vista. Le dipendenze affettive hanno radici profonde che vanno in varie direzioni e possono coinvolgere anche relazioni professionali o genitoriali.

La relazione malata è riconducibile a una sorta di gioco di ruolo ben descritto in un recente libro di Nadia Nunzi che racconta la sua storia, per fortuna a lieto fine, e di Lorenzo Castricini dal titolo “Il manipolatore e la preda”. Il libro mette a confronto i retro pensieri dei potenziali protagonisti di una storia di violenza e scopre così i punti deboli della preda e la strategia del manipolatore.

Da dove ripartire? I tasselli per costruire una relazione solida partono dal rispetto reciproco. Nessuno deve mai permettersi di far sentire inferiore un’altra persona e la regola vale anche e soprattutto con noi stesse. Il primo passo  è essere consapevoli del proprio valore e delle proprie esigenze. Perché “accontentarsi” e vivere relazioni affettive poco appaganti, senza entusiasmo o, addirittura, sofferte? Perché non prendersi il tempo per rileggere il proprio modo di voler bene, partendo da sé? Si può amare a occhi aperti fidandosi dell’intuito per cogliere i segnali di malessere. E soprattutto iniziando a interrogarsi, guardarsi dentro, mettersi in gioco, rivedere le proprie credenze per aprirsi a nuovi atteggiamenti mentali e affettivi.
Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore lunga tutta la vita (Oscar Wilde).

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