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Chi è finto, non è vero?

Ascolto o giudizio? Provocazione aperta

La maggior parte di noi incontra decine e decine di persone giornalmente e con ognuna di esse il grado di comunicazione può essere diverso. Con alcune intratteniamo scambi superficiali, con altri più accurati e approfonditi ma ciò che spesso rapisce la mia riflessione è che, indipendentemente dal grado di accuratezza del dialogo e dal suo fine, ogni minimo scambio ha un potere immenso, quello di lasciare una traccia di noi nell’altro.

Anche una sola smorfia o sorriso depositano qualcosa nella percezione del nostro interlocutore. Ebbene, allora quanto incide il nostro comportamento nell’incontro con l’altro? Domanda forse ovvia e banale: moltissimo. Eppure, sempre più spesso mi imbatto in corpi e volti dalla comunicazione non verbale affaticata, sconnessa dai contenuti espressi a parole e talvolta capace di ostacolare così profondamente il fluire autentico del messaggio che alla fine, una volta andati via, ci si domanda quale essere realmente il contenuto a cui credere.

Quello trasferito dalle parole o dai gesti? Parole che dicono “tutto ok, grazie!” e occhi affaticati che al contempo esprimono invece “ sono sfinito…”; parole che parlano di “ obiettivi raggiunti, budget superati, tutto alla grande! ” e voci “annoiate, piegate dallo sforzo” e potrei continuare a lungo nella lista delle dicotomie osservabili a occhio nudo che, sul lungo termine, finiscono spesso nel ritrovarsi a lavorare su terreni di sviluppo personale ben più profondi nel tentativo di riconciliare l’area dell’essere a quella del fare, l’area del “devo” a quella del “voglio”, l’area del “non posso” a quella del “ci provo”.

E tutto è partito, magari, dal non essere riusciti ad ascoltare e accogliere, in tempi non sospetti, la distonia tra le proprie parole e i propri gesti. Eppure, mi dico spesso, il nostro cuore lo sa. La nostra riflessione, quella che facciamo mentre camminiamo per strada dopo aver bevuto il nostro caffè mattutino e ci incamminiamo alla nostra auto per iniziare la giornata lavorativa, anche; sanno molto bene quale è il vero grado di energia emotiva e fisica che pulsa sotto la nostra pelle e quindi mi domando: quale è la ragione per cui ogni tanto tentiamo di mostrare al mondo qualcosa di diverso da quel che proviamo realmente dentro di noi?

Immagino che qui le risposte potrebbero essere diverse a seconda dei casi. Per difesa, per tutelare l’altro, per ruolo, per condizione o contesto, per necessità e forse in una tra queste cinque macro-categorie, ognuno di noi può ritrovare, la maggior parte dei propri perché. Eppure, vi è un’altra categoria che a mio avviso può essere menzionata come causa di tale atteggiamento. “Ne abbiamo bisogno per stare meglio”. Abbiamo bisogno di mostrare attraverso i gesti o le parole qualcosa di diverso [orientato a bello e al buono, ad esempio] rispetto a ciò che realmente proviamo [che magari è stanchezza o delusione] perché in questo modo desideriamo auto rassicurarci e auto-sostenerci, apportando un sentimento di incondizionata fiducia e speranza nelle nostre risorse generative o nel domani.

Il fine non è quello di mentire al mondo o a sé stessi, né tanto meno di mostrarsi con la maschera che più è utile al momento dell’incontro con l’altro, ma auto stimolarsi a credere fermamente alla potenza delle proprie capacità auto-poietiche in grado di restituire una sensazione di forza e sostegno in qualunque condizione emotiva, fisica e psicologica si stia sperimentando. Il gesto allora, un sorriso forzato dentro parole di dolore, un passo affaticato ma pur sempre deciso, un dialogo svogliato ma pur sempre presente e focalizzato possono divenire un indizio, un invito ad aprirci ad un ascolto più profondo, che innesca una domanda diversa da quella posta in precedenza: a cosa serve giudicare, analizzare, etichettare il comportamento dell’altro dal momento che esso può dipendere da molteplici fattori a noi sconosciuti?

Forse avrebbe più senso indirizzare il nostro incontro con l’altro non tanto sul mero giudizio orientato a elaborare i dati distonici tra il suo comportamento e la comunicazione messa in atto con l’intento di trovare simil risposte diagnostiche a qualcosa, bensì sfruttare tale osservazione – che resta utile e fondamentale – per accogliere con minor spirito critico e indagatorio il bisogno dell’altro che in quel momento, evidentemente, ha necessità d’esprimersi attraverso quello specifico comportamento.

 

Talvolta il magnifico lavoro di crescita personale e relazionale, come accade nelle collaborazioni di coaching, può essere racchiuso proprio nella capacità di saper ammorbidire il giudizio sul comportamento messo in atto da sé stessi o dall’altro. Tale abilità permette di accogliere il contenuto di un messaggio – sia esso sintonico o distonico rispetto a peculiari punti di osservazione, con maggior fiducia e profondità lasciando all’etichetta dei vini la peculiare funzione di definire in poche parole ciò che la bottiglia contiene.

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