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Alle radici del Coaching: Socrate & Pindaro

Con i mattoni si costruisce, grazie alle radici si cresce. Susanna Tamaro Parlare di radici significa andare nel luogo nascosto in cui qualcosa prende forma da un seme e tramite questo si fa strada nel terreno per diffondersi e agganciarsi. Solo la forza, la diffusione e la consistenza di queste radici renderà solida e rigogliosa la crescita del fusto che sbucherà dal terreno per salire verso il cielo e diventare una splendida rosa o una solenne quercia… Ma noi parliamo anche di radici simbolicamente, per indicare il luogo da cui arriviamo e che ha costituito la base e il nutrimento per quello che siamo oggi. Allora è del nostro passato che andiamo alla ricerca per ricordare da dove abbiamo preso le mosse e cosa ci ha sostenuto fin qui, e verso cosa ci possiamo innalzare Dove sono le radici dell’albero del coaching? Questa pianta che sta crescendo e si stà diffondendo velocemente in tutti i continenti? Arrivano da lontano e parlano la lingua di Socrate, il filosofo greco (nato nel 470 a.C.) che tramite la maieutica (maieutiké: “arte della levatrice”), faceva venire alla luce, attraverso il dialogo per domande e risposte, quelle verità e saperi che, gli interlocutori stessi, non erano consapevoli di possedere («da me non hanno imparato mai nulla, ma da loro stessi scoprono e generano molte cose belle» [1]) Essa consisteva nel portare gradualmente alla luce l’infondatezza di certe convinzioni e la profondità di certe conoscenze. Sicché il ‘maestro’ è colui che, sollevando dubbi, destando incertezze, cogliendo contraddizioni, sollecita l’allievo alla ricerca e alla scoperta di un “sapere di sé”. La maieutica quindi come arte di aiutare, poiché la verità non può giungere dal mondo esterno, né può essere tramandata, ma è frutto di un processo di ricerca interno all’individuo, di un impegno a conoscere se stessi Il ‘Conosci te stesso’ di Socrate arriva a dare sostegno e sviluppo al: “Diventa ciò che sei”(3) pronunciato, poche decine d’anni prima, dal poeta Pindaro (nato nel 518 a.C.). Un invito, per ognuno di noi, ad intraprendere il viaggio nella nostra vita … Il nostro destino può sollevarsi, egli dice, a patto che ciascuno diventi ciò che veramente è. Richiamando qui l’immagine dell’albero che cresce liberamente per il solo fatto d’essere piantato, per il semplice fatto d’aver seguito senza ostacoli la propria natura. L’appello intenso è alla realizzazione del proprio progetto, della propria mission esistenziale. Diventare ciò che veramente siamo non può prescindere dal conoscere chi siamo, e per questa strada ri-conoscere ciò che è ‘nostro’ da ciò che è stato ‘importato’. Quelle che sono le nostre capacità, virtù, potenzialità, dai modelli e imitazioni che seguiamo e inseguiamo. Diventare se stessi è dunque difficile, persino pericoloso, ma non diventare quello che si è significa non vivere la propria vita, bensì quella degli altri. In questa opera di ricognizione e svelamento, usciamo dall’imitazione per entrare nella nostra aretè: la realizzazione della nostra essenza, del nostro potenziale, su ogni piano (fisico, il lavorativo, comportamentale, intellettuale, etc..) Così si legano lo sviluppo della personalità con il riconoscimento di sé, si legano Pindaro e Socrate, e in questo intreccio l’annuncio: “Riconosci cosa sei nel cuore del tuo essere, poi cerca di diventarlo.” (4) Lasciamoci con alcuni filamenti di queste radici: Socrate: “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.” “Chi vuole muovere il mondo prima muova se stesso” “Quello che sul piano soggettivo è la felicità, sul piano oggettivo coincide con la realizzazione della propria essenza” “Io non posso insegnare niente a nessuno, io posso solo farli pensare.” Pindaro: “Le speranze non sono che i sogni di coloro che sono svegli.” “Anima mia, non ti affannare per una vita immortale; godi i frutti che hai alla tua portata.” “Il valore di un uomo si misura alla prova dei fatti.” “Non cantata, l’azione più nobile morirà.” (1) Platone, Teeteto (149a) (2) You Tube: Socrate e la Maieutica (3 parti) (3) Pindaro, Pitica II v. 72 (4) La frase era diretta da Pindaro a Ierone I, tiranno di Siracusa e vincitore ai Giochi Pitici a Delfi.

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